Monica Faggiani: quel che resta di un amore, tra ricordi e mobbing

Monica Faggiani in Quel che resta (photo: Michela Piccinini)
Monica Faggiani in Quel che resta (photo: Michela Piccinini)

«E qualcosa rimane / Fra le pagine chiare e le pagine scure / E cancello il tuo nome dalla mia facciata / E confondo i miei alibi e le tue ragioni».
Viene da pensare a De Gregori assistendo a “Quel che resta”, appassionato monologo di Monica Faggiani sulla fine di un amore, sull’inizio di un calvario nel luogo di lavoro.

La vita sa essere più crudele di una canzone. “Quel che resta” è cronaca di un rapporto sentimentale e lavorativo che sfiorisce e si lacera.
Un affetto sfibrato. La fine di un amore è sempre lutto da elaborare. Voltare pagina è più complicato quando le ustioni tracimano dal piano intimo alla vita professionale e artistica. Qui le conseguenze lancinanti sono il mobbing e lo shocking: un climax di vessazioni e umiliazioni.
Non è facile portare uno spettacolo come “Quel che resta” nei circuiti ufficiali. Siamo allo Spazio Qua a Milano, zona S. Agostino, due passi dal Teatro Libero dove Monica Faggiani è di casa.

Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti non è puramente casuale. Ma dal punto di vista dello spettatore, la filigrana autobiografica è un aspetto accessorio. Ciò che conta è esplorare le dinamiche di una relazione tossica, le logiche di potere e ricatto che si sedimentano dentro un rapporto disfunzionale. “Vittima” e “carnefice” colludono, fino a creare un cerchio soffocante. La consapevolezza è il primo passo per uscirne: prendere atto che dentro la coppia non si è felici è l’inizio di una rivoluzione.

“Quel che resta” nasce da un’urgenza personale. Vive dentro un percorso di ricerca di sé. Attraversa brandelli di verità evanescente. Per questo è un lavoro onesto. Come tutti i lavori onesti, diventa coscienza collettiva. Ognuno, in sala, ha qualche nodo da sciogliere.
“Quel che resta” è un percorso esplorativo. A ogni replica cresce, matura. Faggiani, una laurea in psicologia, sa che l’amore può essere un libro senza lieto fine. Non per questo ne strappa tutte le pagine. Ecco uno dei significati del titolo. La catarsi sarà completa se giungerà al perdono. Chi vivrà vedrà.
Una marea di rosso inonda la scena. Niente di cruento. Il rosso, qui, è il sentimento che si mette nelle cose. Forse è proprio la passione per il teatro. Che qui rivela, in modo cristallino, la propria forza espiatrice e salvifica.
Rosso l’abito, rosse le scarpe. Rosso lo smalto sulle unghie. Rosse, a formare un semicerchio, dieci piccole seggiole: come i sassolini di Pollicino, aiutano a ritrovare la memoria di ciò che si era. Ci sovviene, anche, Cappuccetto Rosso. A tutti capita di smarrirsi nel bosco. Le luci in sala (di Alessandro Tinelli) sono blande, e non frenano la relazione degli sguardi. Anche i rimbalzi oculari sono terapeutici.

“Quel che resta” è restituzione dell’infanzia, ma anche recupero del presente e del futuro. Sogni di bimba, ancora da realizzare. Su quelle seggiole, in una stanza del passato, i diari di ragazza, i copioni degli spettacoli, un mangiadischi, i film, tracce di un percorso di formazione.
Di un rosso scialbo sono anche i chicchi di melograno che legarono per sempre Persefone all’Ade, al dio che l’aveva rapita e portata agli inferi. Anche se, per metà dell’anno, la dea tornava a riveder le stelle. “Quel che resta” fa riferimento al mito, ma anche a “Candy Candy”, il manga che spopolava negli anni Ottanta. Candy spigliata e giocosa, combattiva e garbata. Sincera, fino all’autolesionismo. Candy funambolica e vitale, in grado di risorgere attraverso infinite avversità. Incapace di rinunciare all’amore assoluto, che ti cambia la vita.

L’amore vero non può slegarsi dalla felicità. Tra denuncia e sfogo, “Quel che resta” scioglie un grumo di sentimenti. Monica Faggiani, forse con qualche dettaglio pleonastico, con occhiali ancora da centrare, prova a scrollarsi il calvario del passato. Penetra i sottili meccanismi, l’incomunicabilità, le trame perverse che definiscono mobbing e shocking.
Accettare di sentirsi ferita. Tollerare di essere triste. Stare da sola per un po’. Per giungere all’elaborazione, la sofferenza è calice che va bevuto fino in fondo,
«Ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo». “Quel che resta” è diario, poesia, canzoni, ilarità. È crogiuolo di sorrisi e sforzi creativi per esprimere il dolore. È confessione liberatoria, rivelatrice. Per chiudere una pagina. Per ricominciare altrove.

QUEL CHE RESTA. A proposito di mobbing, shocking e altre amenità
di e con Monica Faggiani
aiuto regia: Silvia Soncini
grafica a cura di Andrea Finizio
disegno luci di Alessandro Tinelli

durata: 1h
applausi del pubblico: 3’ 20”

Visto a Milano, Spazio Qua, il 25 gennaio 2019

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