OHT: Il teatro? E’ qualcos’altro da quello che già conosco

Filippo Andreatta (photo: Roberta Segata
Filippo Andreatta (photo: Roberta Segata

Quante volte, affacciandoci al balcone di casa, durante un temporale, siamo rimasti incantati davanti alle nuvole nere che si accavallavano tra loro, al canto degli uccelli che si zittiva, ai chicchi di grandine che colpivano i vetri delle finestre, ai lampi che attraversano i cumuli e i nembi nel cielo, atterriti dai tuoni che subito dopo li accompagnavano?
Quante volte abbiamo pensato: “Il Creatore, se mai ci fosse, sarebbe il regista più grande, l’inventore di effetti più straordinario del mondo”, certi che quello che avevamo gustato fosse stato lo spettacolo più grande e meraviglioso che avessimo visto, e che si sarebbe ripetuto ancora potente, pur nella sua diversità.

A tutto ciò il nostro pensiero è corso al Teatro Ariosto di Reggio Emilia per il festival “Aperto” nell’assistere a “Un teatro è un teatro è un teatro è un teatro”, performance di OHT, Office for a Human Theatre con la regia e la scena concepite da Filippo Andreatta, e con l’insostituibile presenza musicale che l’accompagna di Davide Tomat.

Sul palco niente attori, solo la fugace presenza di alcuni tecnici che passano in sordina, la sagoma indistinta di un soprano che ci ammalia con la sua musica, e per 45 minuti una vera e propria sinfonia di immagini, formata da quinte, cieli, fondali, luci, americane, contrappesi che si muovono e si intersecano tra loro in perfetto contrappunto con la musica. E poi ecco i fari, che simili ad occhi mostruosi ci illuminano, beffardi.
Piano piano al dominio dell’assenza dei colori, dove primeggiano il bianco e il nero, in un susseguirsi di forme rettangolari, fanno capolino i colori e i fondali barocchi, accennati solo nei loro contorni. Ecco che si fa strada poi la natura, replicata da altri fondali con immagini floreali di mille colori, che la luce fa risaltare di volta in volta in modo diverso. Si fa strada anche più avanti, la natura, reinventata a metà, con immagini di boschi dipinti, ma le foglie, quelle sì sono vere e ricoprono tutto il palco. E infine eccolo là il temporale, che si intuisce tra le nuvole e ci appare come fosse vero, repentino e meraviglioso, accompagnato non da tuoni ma da improvvisazioni musicali che ce lo riconsegnano ancor più misterioso e affascinante. Diverso da quello che abbiamo visto tante volte dalla finestra, ma verissimo anche lui, perché questo è il compito del teatro: far sembrar vero ciò che non è, restituendocelo ancora più forte, carico di nuove suggestioni e profondità.

“Un teatro è un teatro è un teatro è un teatro” di OHT risulta alla fine una performance personalissima di compiuta e affascinante costruzione, dove l’assenza dell’attore si tramuta in altrettanta forza del potere immaginativo, creata dai mezzi materiali che servono per costruirlo, il teatro, nella loro potente, semplice essenza.

Abbiamo voluto approfondire questi e altri argomenti con Filippo Andreatta.

Hai denominato il tuo progetto teatrale OHT Office for a Human Theatre. Quali sono le caratteristiche, secondo te, che dovrebbe avere un teatro umano?
Prendo in prestito una frase di Astrida Neimanis: rendersi conto che siamo la condizione per la possibilità altrui. Questo vale per la società che alimentiamo o viziamo ma anche per la scena e l’osceno; il visibile e l’invisibile. In teatro, non dare per scontato che al centro della scena debba esserci sempre o solo l’uomo è qualcosa di estremamente umano. Ma oltre al lato umano del nome OHT, credo anche molto nell’Office, cioè nel lavoro che rende possibile questa condizione. Creare qualcosa che prima non c’era ha un valore intrinsecamente politico per me. È, letteralmente, un fare mondo; negoziare con la realtà le condizioni del proprio linguaggio, del proprio lavoro.

Nella presentazione del tuo progetto affermi: “Il mio lavoro si occupa di paesaggio e di politica personale sottilmente affrontata nello spazio pubblico e privato”.
Mi interessa la realtà, educare il mio sguardo a quello che mi circonda, alle relazioni tra le forme di vita e le cose. Passo molto tempo ad osservare e ascoltare, in particolare le Alpi dove ora vivo, e il rapporto fra la visione e la memoria è qualcosa che mi rapisce. Quello che affiora dal paesaggio è un rimosso dalla coscienza collettiva e riemerge attraverso una prossimità con la natura che è intima, spesso solitaria.

Come lo hai espresso in questa performance?
Rendendo giustizia al palcoscenico per quello che è; un ecosistema complesso con forme di vita umane e più che umane. Rieducando lo sguardo a guardare un luogo, il teatro, che pur conoscendolo molto bene facciamo fatica a vedere.

Le immagine pittoriche presenti nel lavoro di chi sono?
Sono fondali dipinti a mano. All’inizio volevamo recuperarli dai magazzini dei teatri, ma solo il CSC Trento ci ha permesso di accedere al suo materiale. Gli altri tre fondali sono immagini create da alcuni bozzetti che ho preparato ispirandomi a Martin Johnson Heade, un paesaggista americano che dipinse il Sud America, e in particolare la giungla e le paludi, quindi paesaggi non canonici per le vedute del XIX secolo. La realizzazione dei fondali è stata affidata a Paolino Libralato, uno degli ultimissimi artigiani italiani specializzato nel dipinto a mano su grandi tele. Lavorare con lui è stato bellissimo perché abbiamo passato ore a definire come scolpire il colore in base a come lo avrebbe colpito la luce.

Cosa non ti piace del sistema teatrale del nostro Paese?
È estremamente egemonico. Le direzioni artistiche sono molto simili fra loro, dal punto di vista culturale e sociale sono praticamente identiche, c’è pochissima differenza, inclusione e diversità. Poco tempo fa ho chiacchierato con un giovane direttore artistico: mi diceva che “Un teatro è un teatro è un teatro è un teatro” dovrebbe essere presentato come progetto musicale o installativo. Ecco, questo modo di pensare è egemonico oltre che noioso. Chi è quella direzione artistica per sentirsi autorizzata a definire cos’è teatro? Perché saprebbe, ad esempio, meglio di un artista cos’è teatro? Ma soprattutto, se non c’è la capacità cognitiva di riconoscere il teatro come qualcos’altro da quello che già conosco, siamo sicuri di saper raggiungere persone che a teatro non vanno? Con questo modo di pensare non c’è, in alcun modo, la possibilità di avere in teatro persone diverse da quelle di sempre, e non mi riferisco solo al pubblico, ma anche agli e alle artiste che quel teatro lo dovrebbero far vibrare.

Quali sono gli artisti che ti hanno influenzato? E quali quelli che ti piacciono?
Innanzitutto mi piacciono le persone con cui lavoro perché sono loro che influenzano il lavoro in modo tangibile, lo materializzano. Quindi Davide Tomat, Veronica Franchi, Andrea Sanson, Claudio Tortorici, Cosimo Ferrigolo, Andrea Colò, Silvano Brugnara, Anna Benazzoli e Laura Marinelli. Oltre a loro posso elencare degli e delle artiste che ammiro moltissimo come Apichatpong Weerasethakul, Michikazu Matsune, Ásrún Magnúsdóttir, Silvia Costa, Heiner Goebbels, Gisèle Vienne, Romeo e Claudia Castellucci, Gertrude Stein, Bob Wilson, Alfredo Jaar, Michael Haneke, Alma Söderberg, Olafur Eliasson, Julius von Bismarck, Jonny Greenwood, Steve McQueen, Alessandro Sciarroni… potrei andare avanti davvero a lungo perché adoro le liste.

Progetti futuri?
Per la prima volta mi confronterò con un testo di letteratura classica, “Frankenstein” di Mary Shelley. Un testo bellissimo, che ti sorprende perché l’immaginario incredibile che ha provocato non è all’altezza delle parole di Mary Shelley. Complesse, indimenticabili, fortemente legate alle Alpi e scritte durante un’anomalia climatica: il 1816, infatti, fu l’anno senza estate, per i violenti effetti atmosferici causati dall’eruzione del vulcano Tambora in Indonesia. Per questo progetto mi piacerebbe trattare la produzione stessa come il mostro del romanzo di Shelley e realizzare un assemblaggio di performance diverse. Allo stesso tempo sto lavorando su un secondo progetto, ma ho bisogno di più tempo per trovare la confidenza di parlarne apertamente, e spero si riesca a recuperare la mia prima regia lirica, il “Noye’s Fludde” di Benjamin Britten.

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