
Da povero ingenuo, arrivo all’Argentina che di Steven Berkoff, oltre ad averne presente il volto austero comparso sul grande schermo in “Rambo”, “Arancia Meccanica” e “Octopussy”, conosco solo alcuni monologhi e testi teatrali, tra cui “Decadenza”, “East West”, “Acapulco” e “Il Natale di Harry”, premiati e rappresentati in tutto il mondo. Da grande fan della drammaturgia, mi s-cervello non poco, alla ricerca di quell’ingrediente magico che li rende brutali, divertenti, tragici e mostruosamente ostici allo stesso tempo. Parole a fiume per un linguaggio volatile, che se ne frega delle definizioni classiche verso una sintesi trasversale.
Questo se dovessimo parlare solo del testo. E fino al debutto a Roma dello spettacolo One Man, erano gli unici strumenti d’analisi a mia disposizione.
Lo spettacolo è diviso in due parti, ma lui è sempre lui. Come in altri monologhi firmati Berkoff, è l’attore unico, il ‘one man’ appunto, che si occupa di raccontare e testimoniare, a voce e a gesti, l’esistenza di altri personaggi.
“The Tell-Tale Heart” è uno dei più celebri racconti neri di Edgar Allan Poe, emblema di quel gusto gotico e ‘grandguignolesco’ che aveva fatto grande lo scrittore inglese. Era capitato, in passato, di assistere a dei reading, di vederlo addirittura chiamato in causa in una puntata dei Simpson. Ma non di sentirlo raccontare da un mostro della mimica come quello che si rivela essere Steven Berkoff.
Due fasci di luce lo inquadrano nello spazio vuoto del grande palco romano. Immobile per diversi secondi. Sorriso stampato. Una fotografia. Il suo corpo è invecchiato, la sua fisionomia mezza slava si confonde tra profonde rughe d’espressione. Poi, in un batter d’occhio, rapido come una lucertola, è già in proscenio, che racconta a una velocità sorprendente di un vecchio disgustoso che lo guarda sempre con un orribile occhio di vetro da mettere i brividi.
Sì, le prime parole sono pronunciate con costruzione infantile, dadaista, come in dormiveglia e colgono di sorpresa, con quello stretto accento londinese che, unito al frac e alle pose caratteristiche, ci scaraventa indietro di centocinquant’anni. Tra ripetizioni, giochi linguistici ed effetti fonetici che simulano il disco incantato, il discorso impiega un po’ a farsi comprensibile ed è proprio Berkoff a tirarci fuori dalla nebbia, dandoci alcuni assaggi di un controllo impressionante del corpo. In pochi attimi diviene mimo allo stato puro, con tanto di corsa sul posto e muri trasparenti, rimasugli delle vecchie lezioni di Chaplin e Marceau ma che, combinato con una presenza scenica più che notevole e con una chirurgica attenzione ai particolari, si fa tappeto rosso steso in favore di una delle narrazioni più accurate viste ultimamente.
L’arte teatrale gronda da ogni movimento e Berkoff ci trascina da un luogo all’altro, descrivendoci e mimandoci in maniera esilarante il momento in cui il protagonista fa a pezzi il cadavere del vecchio, dopo averlo ucciso, e lo nasconde sotto le assi del pavimento del salotto.
Una scena agghiacciante di suo, realistica al punto che ci sembra di vedere rotule, dita e interiora a spasso per la stanza, quando invece non c’è che un uomo che, con la sua affabulazione vocale e gestuale, si prende gioco della nostra immaginazione. Lo vediamo lanciare qualche lembo di carne a un invisibile ma udibile gatto che potrebbe davvero essere lì, lo consideriamo come nascosto nell’ombra; lo osserviamo divertiti e straniati discendere le scale a chiocciola per accogliere i poliziotti e cogliamo con lui l’arrivo della follia nel sentire, sotto i piedi, quel cuore rivelatore che batte all’impazzata.
Il secondo brano, “Dog”, è scritto da Berkoff stesso e racconta la giornata tipo di un hooligan e del suo pitbull Roy. Equo e attento ai gusti di tutti, qui l’attore inglese si e ci concede una tirata di vero e proprio cabaret clownerie, un po’ alla maniera del ‘vecchio’ Jango Edwards. Il testo è più che altro un canovaccio, in cui molto dell’effetto è lasciato alla maestria della caricatura sociale dell’Inghilterra tatcheriana: pub, risse da stadio e denuncia dell’amoralità. Un racconto surreale che forse è destinato a far breccia più nei gusti di chi conosce Londra e il suo Circo Barnum: di chi è in grado di riconoscere in movenze e tirate mimiche di sconvolgente volgarità e vena splatter, una satira di costume alla Little Britain. Agli altri, in questo secondo tempo, non resta che riconoscere in Berkoff una simpatia fuori dal comune e un talento di palco davvero raro, di questi tempi, per sapienza e orizzontalità, attenti a non abbandonarsi al confronto con certo cabaret nostrano alla Zelig. Qui c’è vero teatro, dietro. E a testimoniarlo è di certo il primo tempo, che include quei momenti che, uscendo dal teatro in cerca di una birra, si ricordano con occhi sgranati, alla ricerca dell’ingrediente magico che li ha resi irripetibili. Un po’ come i testi stessi di Steven Berkoff, dei quali di certo raccomandiamo la lettura.
ONE MAN
di Steven Berkoff
regia: Steven Berkoff
produzione: East Production
con: Steven Berkoff
durata: 1 h 35’
applausi del pubblico: 3’ 15’’
Visto a Roma, Teatro Argentina, il 24 gennaio 2009