Al Festival d’Avignon 2011 abbiamo incontrato Romeo Castellucci, Gianni Plazzi e Sergio Scarlatella in occasione della presentazione dell’ultimo lavoro della Socìetas Raffaello Sanzio: Sul concetto di volto nel figlio di Dio
Non potrebbe esserci paternità senza rapporto filiale. Senza atto creativo: atto di leggerezza e profondità, di egoismo e materia. La creazione di Romeo Castellucci – Sul concetto di volto nel figlio di Dio – in procinto di essere presentata al pubblico veneziano in occasione della Biennale Teatro di questi giorni, è reduce da una importante tournée internazionale, che ha toccato diversi dei centri che stanno coproducendo il progetto ‘J’.
Krapp si è già occupato dello spettacolo, che ha debuttato diversi mesi fa. Proponiamo oggi, come viatico alla replica veneziana di giovedì, l’intervista che abbiamo realizzato con Romeo Castellucci e gli interpreti dello spettacolo ad Avignone, in occasione della rassegna estiva più celebre d’Europa. Il Festival d’Avignon è infatti tra i diciannove enti che hanno coprodotto questa parte di progetto, e il pubblico francese ha circondato d’affetto il regista italiano, cercando nella testualità scenica letture davvero ulteriori rispetto a quelle che forse erano le intenzione del regista, ma che non hanno mancato di illuminarne il volto.
Ed è davvero con luce che Castellucci raccoglie gli stimoli del dibattito presso la Scuola d’Arte di Avignone, rivolgendo ai suoi spettatori un’attenzione speciale: il rapporto padre-figlio all’origine dell’indagine diventa rapporto fra le generazioni, secondo chi legge, in questo momento di crisi, il lascito fecale del genitore come la triste e pesante eredità di nulla che il nostro tempo eredita dagli anni ruggenti di fine secolo scorso; per molti altri è invece un percorso sulla pietas, sul dolore dell’umanità scarnificata e sacrificata e, in quanto tale, come ci conferma Gianni Plazzi, un atto d’amore.
Castellucci ovviamente rifugge ogni lettura appiattita su qualsivoglia interpretazione di matrice ideologica, e rilancia forte il soffio delle sue opere come determinazione suprema e trascendente. La ricerca nell’assenza è, per il regista, domanda universale su un padre impossibile da vedere, da conoscere.
Proprio come il Cristo sulla croce chiede al padre dove sia in quel momento, così anche Castellucci affronta l’indagine partendo da ciò che è immateriale, impossibile da definire nella mente: “Voglio incontrare Gesù nella sua lunghissima assenza”.
Si pensi alla difficoltà di immaginare i connotati di un volto mai visto. Di un essere (anche solo umano) immaginario. E si pensi al riscontro invece materialissimo della presenza di chi attraversa con noi il transito terrestre. E alle emozioni condivise nella vita. A questo si pensi, e alla tragica e assoluta fragilità dell’uomo, letta nel suo più disturbante materializzarsi.
Nel cortile della Scuola d’Arte ad Avignone, come in quel lembo di terra che si sporge più di tutti nella laguna di Venezia, le domande sull’assoluto, presenti in questo come d’altronde in tutti i lavori più alti della Societas, restano identiche: quesiti e ragioni profonde che coccolano duramente lo spettatore, in un’epifania che, non facile da rimuovere, comunque non consola.
inutile sprecare parole per un fallimentare esperimento nemmeno teatrale ma solo psichicamente patologico…non si sa come vengono le cose …..che terribile vergogna condividere anche solo la nazionalita’ con questo poveraccio! sta male per i profumi che offre.