Pubblichiamo oggi l’ultimo articolo scelto fra quelli scritti dai ragazzi del progetto Youngest Critics for Dance 16/17.
E’ stata una quinta edizione vitale, che ci ha fatto incontrare giovani particolarmente capaci e intraprendenti. Il risultato si è ribaltato anche nella scelta di pubblicare su Klp molti più articoli degli anni passati.
In attesa di vedere anche il risultato del lungo lavoro video, attualmente in faso di montaggio, vi lasciamo a uno dei due spettacoli dell’ultima serata dell’Interplay Festival, partner del progetto, raccontato da Tobia Rossetti.
Seduto incurante dietro ad una scrivania, aspettando che il pubblico si accomodi ai propri posti, il giovane coreografo Jan Martens, classe 1984, di formazione belga/olandese, dà il suo personale benvenuto al pubblico, riunito alla Lavanderia a Vapore per l’ultima serata di Interplay/17.
Intanto organizza alcune finestre sul desktop del suo pc, lo prepara per lo spettacolo, mentre il proiettore al quale è collegato ci permette di assistere in diretta ad ogni sua azione, come se ci trovassimo in attesa nel suo ufficio o, meglio ancora, in camera sua.
“Ode To The Attempt” non è il lavoro di ricerca artistica tipicamente concettuale che forse ci si potrebbe aspettare vedendo un coreografo che accoglie gli spettatori comodamente seduto davanti ad un computer: non interroga infatti il campo d’interazione con la tecnologia, ma semplicemente la sfrutta attraverso dinamiche semplicissime (e in questo senso originali).
Mettendo in scena un frammento di vita quotidiana, “Ode” rivela quella segreta fonte dei processi creativi di un artista contemporaneo alle prese con la sua intimità, con i suoi software, le sue malinconie e le sue idee.
Jan ci fa entrare dunque nella sua stanza, nella sua quotidianità, attraverso una capacità tipicamente informatica di ridefinire i linguaggi dello spettacolo eludendo dal teatro. Privato lo spettatore di una concentrazione catartica, gliene richiede invece una più schiettamente elaborativa, come investendoci del ruolo di giuria.
Una tendenza questa, prettamente mitteleuropea, che spesso fonde alle più ricercate pretese interattive, una semplice presenza multimediale già intrinseca alla scena, ormai divenuta, appunto, quotidiana, qual è il caso del Mac di Jan, non più percepito come qualcosa di altro, non più scenografia, ma parte integrante della drammaturgia.
L’autore comunica divertito con il suo pubblico attraverso un documento di testo scritto in diretta e proiettato alle sue spalle, con cui anticipa al lettore una dozzina di ‘attempt’, che fungeranno da vere e proprie scene, fra cabaret e lirismo, e che lui rispetterà fedelmente, come ad eseguire un algoritmo.
Dal “tentativo di rappresentare qualcosa di minimale” a quello di “rappresentare qualcosa di classico”, dall’esposizione della raccolta di selfie che ha salvato in memoria all’invio di un messaggio di odio alla sua ex fidanzata, Jan Martens gioca con il pubblico e con gli stessi linguaggi della danza, nel dolce quanto eroico tentativo di rappresentare, senza veli, l’intimità, fotografata in una delle sue sfumature forse oggi più soggettive ed attuali: il personalissimo modo di vivere e approcciare il linguaggio informatico da parte di un giovane nato e cresciuto a stretto contatto con esso.
Tanti spettacoli, o tentativi di spettacolo, come suggerisce quell’“ode al tentativo” promessa dal titolo stesso che, attraverso un unico macrospettacolo, racconta con ironia la routine artistica non solo di Jan, ma di tutti i Millennials suoi coetanei, la cosiddetta Generazione Y, dei nati cioè sul finire del secolo scorso, contemporaneamente alle nuove tecnologie digitali.
Lo spettacolo smonta la stessa aspettativa artistica, non fa ricerca, ma è un’istantanea (già peraltro quasi sbiadita) di un mondo personale ma condivisibile, un’ode affettuosa e delicata verso una nuova soggettività epistemologica tutta da esplorare: quella di un nativo digitale.
E lo fa in un formato incredibilmente innovativo che, se inattende le aspettative di chi pretendeva uno spettacolo di ricerca, o portatore di nuovi significati, innova proprio attraverso la sua drammaturgia banale, suddivisa in scenette, scritte in forma di algoritmo, non spettacolari quindi, ma assolutamente comuni. E’ proprio attraverso un’introspezione precipuamente contemporanea che un millenial si interroga indirettamente sulla natura dell’arte e, soprattutto, del linguaggio artistico, negli anni dieci del nuovo millennio. Jan Martens sembra aver compreso la natura comune che i linguaggi coreutici condividono con quelli computazionali. La danza, sembra dirci, è fatta di precise codificazioni e decodificazioni, allo stesso modo dei computer.
Tobia Rossetti – Youngest Critics for Dance 16/17