Art you lost? Rewind di un teatro per la città

Art you lost?|L'esterno del Teatro India durante Art you lost?|Art you lost?|Art you lost?
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L'esterno del Teatro India durante Art you lost?
L’esterno del Teatro India durante Art you lost? (photo: Simone Pacini)
È stato sicuramente uno degli eventi della stagione teatrale romana: centinaia di persone lo hanno realizzato lasciando i propri ricordi, in migliaia lo hanno visitato, calpestato, fotografato, esplorato. Molti sono venuti anche da fuori Roma, e in rete se ne è parlato per mesi. Il 23 febbraio scorso la serata finale ha concluso, per il momento, l’esperienza nella capitale.

Klp oggi vuole tirare le fila e raccontarvi cos’è stato “Art you lost?” per proiettarlo nel futuro attraverso un’intervista ai suoi autori, professionisti del teatro che vengono da esperienze diverse.
E per questo abbiamo rivolto loro una domanda a testa.
Ecco cosa ci hanno risposto Lisa Ferlazzo Natoli, Alice Palazzi, Maddalena Parise e Monica Piseddu (lacasadargilla), Claudia Sorace e Riccardo Fazi (Muta Imago), Luca Brinchi e Roberta Zanardo (Santasangre), Matteo Angius.

“Art you lost?” è nato all’interno di Perdutamente, il progetto voluto dal direttore del Teatro di Roma Gabriele Lavia durante il quale alcune compagnie romane hanno abitato il Teatro India per un laboratorio permanente che si è protattro all’incirca da ottobre a dicembre 2012. La vostra operazione si è distinta subito per ambizione e innovazione, oltre che per la creazione di un gruppo artistico eterogeneo. Come vi siete trovati? Vi siete rincorsi oppure è stato subito feeling?
Lisa Ferlazzo Natoli: Non direi che ci siamo ‘rincorsi’, ci si conosceva da tempo, si guardava già con attenzione al lavoro degli altri e soprattutto a un modo di fare teatro che, al di là delle differenze di segno, ci faceva come presentire una somiglianza nell’intendere una progettualità più ampia e un modo quindi di costruire. C’è stata anche una grande, sana curiosità man mano che il progetto e le persone andavano componendosi. Io e Roberta Zanardo ci siamo incontrate subito dopo la chiamata di Lavia, semplicemente per chiacchierare e dirsi da vicino dove eravamo.
E’ stato immediatamente chiaro che si aveva voglia di collaborare, e soprattutto di condividere una prospettiva progettuale all’interno dell’azzardo che richiedeva Perdutamente.
Poco dopo Santasangre e Muta Imago hanno spedito a tutti una pagina di proposta per un progetto collettivo, che chiariva il desiderio di non fare, di Perdutamente, una serie più o meno riuscita di spettacoli. In questo movimento, cui si è aggiunto Matteo Angius, già si cominciava a riflettere assieme, ad incontrarci per i primi caffè estivi, che poi si sarebbero trasformati in lunghe serate passate tutti insieme ad immaginare cosa avremmo voluto che diventasse il Teatro India e quale natura avrebbe dovuto avere il lavoro.
Ho idea che quello che ci ha subito cementati come ‘compagine’ sia stata l’impressione nitida che ci si sentiva chiamati ad altro, sia per ciò che ha sempre rappresentato il Teatro India a Roma sia per una posizione di ‘domanda’ in cui il teatro oggi deve immancabilmente muoversi: una domanda profonda relativa al pubblico, al senso di quella cosa che chiamiamo spettacolo e ad un nuovo modo di costruire un immaginario collettivo. Questo ‘altro’ da noi, da dove ci eravamo mossi fino a quel momento, ha significato ricostituirsi come una serie compatta di individui, di singolarità che cominciano ad immaginare e a costruire assieme un oggetto per tutti nuovo come è stato “Art you lost?”.

Art you lost?
Art you lost? (photo: Carlo Infante)
Il progetto ha aperto e chiuso Perdutamente, ma nella sua seconda edizione di febbraio ho notato un ulteriore miglioramento (le scatole con gli oggetti sono state chiuse, si è aggiunta una nuova stanza con i ricordi sonori da tastiera). Leggendo la locandina vedo che siete nove autori oltre a cinque ulteriori collaboratori. Come siete riusciti a dividervi i compiti in questo team che è risultato vincente?
Alice Palazzi: “Art you lost?” è il frutto del lavoro e della collaborazione di molte persone, oltre ai nove autori il progetto non sarebbe stato possibile senza gli ‘ulteriori collaboratori’, compagni di viaggio delle singole compagnie che, ragionando sulle diverse tappe del progetto, sono state una spinta creativa e una forza lavoro fondamentale per la sua riuscita. Non c’è mai stata una vera e propria suddivisione dei compiti; è stata una strada tutta nuova per ognuno di noi, in cui ci siamo ritrovati a spostarci da abitudini, sicurezze e competenze, per procedere su un terreno nuovo, mettendo i nostri talenti individuali a servizio del lavoro e scoprendone di nuovi nei casi di ‘emergenza’.
Si è proceduto secondo curiosità, disponibilità e attitudine, mettendo a frutto ogni specificità e partendo sempre dal confronto e dalla discussione. Ti racconto una giornata tipo dello scorso febbraio. Io sono la calligrafa ufficiale di “Art you lost?”. I 600 numeri rossi sulle scatole di cartone, che corrispondono ai 600 numeri rossi sui fogli delle storie collegati alle scatole, li ho fatti io. Si dice che abbia una bella calligrafia ed ecco. Elisa e Monica hanno ritagliato 1200 pezzetti di scotch carta su cui scrivere i numeri. Roberta e Lisa hanno passato il cavo d’acciaio dentro 600 scatole di cartone, mentre Luca, Matteo, Mario e Gianluca li hanno appesi al soffitto. Mariaelena ha preso misure, controllato le altezze e il piombo. Claudia ha catalogato, controllato e fatto corrispondere ad ogni oggetto la sua foto, la sua scatola e la sua storia. Maddalena ha prima progettato e poi stampato e ritirato e piegato i 2000 volantini di “Art you lost?”. Alessandro e Riccardo hanno allestito il nuovo corridoio delle tastiere musicali (nella versione di dicembre non c’era), passando da tecnici del suono, a falegnami, poi muratori, elettricisti, imbianchini. Era una domenica credo.
E’ stato davvero un lungo tempo di formazione, un cantiere perpetuo di ricerca e sperimentazione nel quale, anche con momenti di profonda confusione, abbiamo cercando di fare di questa nuova collettività, di questo parlare e ragionare insieme, il punto di forza del progetto.

Ma la grande forza è stata anche nell’avere messo al centro dell’attenzione lo spettatore/utente/fruitore, che è diventato oggetto fotografico, narratore e non solo. Questa è una novità rispetto ai curricula artistici di ognuno di voi. Perché avete sentito questa necessità?

Maddalena Parise: Aprire il teatro alla cittadinanza è stato uno dei motori. Il Teatro India è uno spazio bellissimo e inusuale, quasi “europeo”, ma è per lo più frequentato da “addetti ai lavori” e in fondo poco conosciuto dagli abitanti della città. Ci siamo chiesti come poter invertire questa tendenza: con l’idea della “chiamata” abbiamo tentato di stabilire un nuovo patto con gli spettatori, coinvolgendoli attivamente nella costruzione di quest’opera collettiva e permettendogli di scoprire gli spazi del teatro anche al di fuori del loro utilizzo canonico.
La costruzione di un percorso drammaturgico in cui lo spettatore/fruitore ha lasciato le proprie tracce è nata anche da questo tentativo di invertire la posizione del pubblico, di capovolgerne la prospettiva dello sguardo. Scrivere sulla mappa di Roma, lasciare il proprio ritratto fotografico, narrare delle storie, lasciare degli oggetti sono tutti gesti che, riversandosi all’interno degli spazi teatrali e trasformandoli radicalmente, li hanno in qualche modo aperti alla città.

L’opera unisce un’idea innovativa a una realizzazione impeccabile. Quali sono state le problematiche tecniche maggiori che avete dovuto affrontare invadendo uno spazio grande quanto la somma di tutte le sale più il foyer e i corridoi dell’India?
Luca Brinchi: La possibilità di lavorare su tutto lo spazio del Teatro India è stata una volontà presente fin dall’inizio. La nostra immaginazione ha lavorato da subito in quella direzione, chiarendo in tempi brevi la proporzione delle cose. La fortuna di poter sviluppare il progetto all’interno dello spazio che l’avrebbe poi ospitato è stato sicuramente un elemento fondamentale nel trovare il calibro installativo di “Art you lost?”. Forse ciò che è stato più difficile da gestire, e per questo in particolare mi riferisco al periodo di Perdutamente, è stato il tempo, che scorreva velocemente rispetto alla mole di cose che c’erano da installare. Per questo non direi che è stato problematico, ma semplicemente complesso.

Art you lost?“Art you lost?” ha avuto, nelle due serate, vari ospiti che hanno voluto lasciare un segno. Dalla installazione di MP5 alle incursioni performative di Masbedo fino alla Tag Cloud Live a cura di Urban Experience e alla Silent Disco a cura di Snob Production. Queste contaminazioni erano previste dall’inizio oppure sono nate casualmente?
Roberta Zanardo: La presenza delle incursioni è stata prevista fin da subito per confermare l’esperienza fatta a dicembre all’interno di Perdutamente. In quel contesto infatti, per l’ultima serata, avevamo chiesto a tre compagnie di abitare con le loro performance gli ambienti da noi realizzati, cercando di stabilire un principio di organicità e non di subordinazione. In quella circostanza abbiamo voluto e potuto verificare come, sul dato oggettivo di estraneità esistente tra “Art you lost?” e una performance nata con processi diversi, era possibile costruire invece una complicità formale.
Nel secondo allestimento abbiamo operato due differenti inviti: ad alcuni artisti abbiamo riproposto la modalità di dicembre, ad altri al contrario abbiamo consegnato dei materiali già presenti in “Art you lost?” chiedendo di farli entrare nel loro progetto artistico attraverso un’ulteriore elaborazione.

“Art you lost?” è stata anche una sfida alle lamentele e alla crisi, la conferma che mettendosi in rete e contaminandosi si possono superare le autoreferenzialità del sistema culturale. Raccontami una critica che vi hanno fatto.
Claudia Sorace: In effetti il progetto è stato accolto con molto entusiasmo generale, proprio per il punto di vista completamente nuovo che ha messo in campo. Una critica che ci hanno fatto, che contiene buoni suggerimenti di lavoro, riguarda come abbiamo comunicato il percorso di raccoglimento delle tracce e come queste sono confluite nell’opera. Alcuni non riuscivano a leggere chiaramente il rapporto traccia-opera. Da una parte questo voler parlare soprattutto con il lavoro, rifiutando testi di supporto troppo esplicativi, denuncia la nostra origine teatrale, il nostro abituale “esprimerci con lo spettacolo”. Dall’altra evidenzia la natura del progetto, il suo essere un’operazione artistica che non sta solo in ciò che si vede alla fine, ma risiede soprattutto nel percorso fatto per arrivare a quel punto. Non è importante l’oggetto in sé, la singola scarpetta di panno di quella bambina, ma il fatto che la madre abbia voluto lasciarcela, e facendo questo abbia compiuto un piccolo gesto rivoluzionario.

Art you lost?
Art you lost? (photo: Simone Pacini)
Apparentemente il vostro progetto sembra mettere da parte l’arte dell’attore per una nuova definizione di spettacolo dal vivo. Come sei riuscita ad inserire le tue qualità di attrice in questo contesto?
Monica Piseddu: Ognuno di noi, data la particolare natura del progetto, si è dovuto in qualche modo spostare dal proprio specifico stretto, chi più, chi meno. L’unico momento performativo avveniva per telefono durante il preparatorio, quando a turno raccontavamo un episodio di quando ci siamo persi. Era solo un breve momento, perché subito dopo chiedevamo di raccontarci una storia, ed ecco che i ruoli si erano già ribaltati.
Per me è stato un privilegio far parte di un gruppo di lavoro come questo. Seguire fin dal principio il processo creativo, dal concepimento dell’idea alla sua realizzazione, era un’urgenza che sentivo da tempo, e poterlo fare all’interno di un collettivo così eterogeneo nella sua molteplicità di sguardi, approcci, competenze, è stato entusiasmante.
In fondo abbiamo creato una drammaturgia, cercato le leve, le porte, le chiavi di accesso che avrebbero permesso il rilascio e la libera circuitazione di oggetti personali importanti, genuini, inaspettati. Non è molto diverso da quello che faccio nel mio lavoro di attrice.

Adesso credo si pongano più problematiche, una di queste è dove custodire fisicamente tutte queste memorie. Ci avrete pensato sicuramente, potete anticiparci qualcosa?
Riccardo Fazi: Le tracce sono segni sui quali è intervenuto il tempo. Bisogna dare loro la possibilità di stare, perché la distanza con il gesto che le ha prodotte possa donargli un significato ulteriore. Per questo crediamo che dovrebbero rimanere lì, all’India. Dovrebbero restare e diventare parte del luogo che le ha ospitate e che ha donato loro nuova vita; un luogo che è anch’esso traccia di un passato che non c’è più. Bisogna solo trovare la maniera, e su questo stiamo lavorando.

Uno dei commenti più entusiasti che ho sentito è stato: “Se fossimo negli Usa un’opera del genere andrebbe dritta al MoMa di New York”. Con le dovute precauzioni e le probabili scaramanzie, avete in mente alcuni luoghi dove proporre in futuro lo stesso format? Auspicate una tournée?
Matteo Angius: “Art you lost?” è stato ideato negli spazi specifici dell’India, intorno ad un progetto particolare, e per questo dedicato espressamente al tema della perdita. È proprio della natura del progetto riflettere sulle architetture, sulla loro struttura e sulla loro memoria. Anche il tema intorno al quale si costruisce il progetto ne determina le diverse pratiche di lavoro e le particolari forme della sua realizzazione.
“Art you lost?” è però un format, e non solo un progetto site specific, che può essere presentato nella sua forma già esistente così come si è articolato ma con nuovi contenuti, quindi dopo un nuovo preparatorio, e con diversi allestimenti spaziali a seconda dei luoghi che lo ospiterebbero, o in una realizzazione inedita sia in termini di contenuti, materiali raccolti e allestimento degli spazi, preservandone l’identità artistica.
In questo secondo caso anche il titolo potrebbe essere declinato diversamente, a seconda del tema. Secondo queste coordinate, quind, lo consideriamo un progetto fortemente esportabile in luoghi teatrali e non, all’interno di stagioni o di festival, in relazione con eventi cittadini o culturali in generale. La sua contaminazione fra teatro e arte contemporanea ne fa un oggetto trasversale, liquido, diversamente declinabile e riattualizzabile a seconda delle occasioni. In questo momento stiamo lavorando per un’esportazione internazionale e per festival estivi italiani.
 

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