Theatre You Lost. Dalla perdita ci sarà un inizio? Riflessioni per un nuovo anno

Le bandiere infarcite di nomi fuori dal teatro India
Le bandiere infarcite di nomi fuori dal teatro India
Le bandiere infarcite di nomi fuori dal teatro India (photo: Giacomo d’Alelio)
Ciò che si perde si deve ritrovare, o meglio riconquistare.
“Flags of our Fathers”, titola uno dei film dell’uomo Clint Eastwood dedicati alla sanguinosa battaglia di Iwo Jima. Bandiere dei nostri padri.

Sono bianche, lunghe ed enormi, le “bandiere” che sventolano sulla facciata del Teatro India di Roma in una notte di dicembre. Come drappi di conquistata memoria, i nomi di tutti coloro che hanno reso possibile questo momento, questo epilogo, sono scritti su di esse, con il teatro avvolto, mangiato, impacchettato, da questi fantasmi di stoffa rettangolare srotolati dall’alto verso il basso, come se si stesse nella sala degli arazzi di una corte medioevale, come se fossero i vessilli di un esercito in guerra, come se invocassero il monumento a un caduto, da onorare, celebrare, in attesa di resurrezione.

I “passi” ne percorrono la facciata, scolpiti da Paladino e coperti per una volta, con altre orme visibili illuminate da fari, fiaccole, che dal basso aiutano a proiettare su quei segni ombre che camminano di shakespeariana memoria.

“Art You Lost?” è il nome di questo epilogo, che ha conquistato gli spazi dell’ex fabbrica della Mira Lanza, la cui sorte teatrale fu voluta strenuamente a suo tempo dal mentore Martone.
The End, che non si sa ancora se sarà Happy, composto dagli interventi di chi, tra novembre e dicembre, è stato qui per il percorso preparatorio, architettato da Lisa Ferlazzo Natoli, Alice Palazzi,
Maddalena Parise, Monica Piseddu (lacasadargilla), Riccardo Fazi, Claudia Sorace (Muta Imago),
Luca Brinchi, Roberta Zanardo (Santasangre), Matteo Angius.

Consegnare un oggetto a cui si è legati, ma da cui si è disposti a slegarsi “materialmente”, donando, non si sa bene per cosa ma nella volontà della condivisione, è stato uno degli atti più importanti di questa fase.
In un percorso iniziato da soli, componendo con cubi e blocchi di legno la propria data di nascita, pronti a perdersi per ritrovarsi, in istantanee per cui si doveva scegliere un fondale su cui lasciarsi fotografare in autoscatto; scatole di varie grandezze, tra cui decidere la sola capace di contenere il proprio dono; musiche in grado di evocare ricordi da segnare su carta, poltrone in cui ascoltare e raccontare, buchi in cui sussurrare, cartine geografiche su cui lasciare le proprie tracce.

Le bandiere bianche, tessute di nomi in nero, continuano a sventolare sulla facciata, persone che al di sotto scrutano, birra in mano, chi da solo chi in compagnia, in cerca del proprio nome.
Passa una ragazza che sorridente dice: “Complimenti”, e fa cenno di brindare. Cercando se stessi, si trovano gli altri, tra quei nomi, altri da sé, altri da quel noi che riga dopo riga si allarga, quei nomi narrati da Saramago, DeLillo… quanti altri ancora?

Quei nomi prendono un volto, nell’enorme foyer del teatro, dove le foto/ritratto scattate, rubate in precedenza, acquistano un senso, una propria collocazione: sulle quattro pareti della stanza rettangolare, in alto, sono poste in una riga continua, i cui tasselli sono quei visi di cui per alcuni si conosce l’identità, per altri è quasi la sensazione di un nuovo incontro.
Le stanze accanto lanciano il loro richiamo, e dove iniziare se non da “una selva oscura, ché la diritta via era smarrita”?

E invece che a Roma, in un teatro, si è in una foresta, vegetazione che rigogliosa esiste, in cui si sente il fruscio della vita, di persone che si lasciano attrarre da quei suoni, bisbigli: “Conosci te stesso”, “Ascolta il tuo cuore”, “Amati di più”, alcune delle eco…

Un’altra enorme stanza è piena di scatole, di varie misure, recanti un numero, collegato a uno dei fogli che coprono le pareti: i doni lasciati e le loro storie.
Cè Christian Raimo tra gli spettatori, e con fare assorto, quasi commosso, durante una conversazione, si gira a guardare quelle pagine, dice, “di aspiranti scrittori”, storia, ed eroina principale, la propria vita. E ancora, chi l’ha portato, cerca il suo oggetto, e quello che ha scritto, ma in questo cade a scoprire gli altri…

Verrà, il “(P)Art You Lost?” che farà da festa finale, da commiato dall’India e da Perdutamente, il party, e le sue nebbie, in cui immergersi, i fumi del vecchio anno, e quelli della nascita del nuovo, in cui perdersi… Forse anche la memoria di questi mesi che sono stati, e che sono finiti, così di recente?

Mentre le foto nel foyer scorrono, si raccolgono, da chi ha partecipato, voci discordanti. A chi dice che “Art You Lost?” continuerà, e che quei doni lasciati saranno utilizzati per una fase successiva, come l’energia raccolta, creatasi dalle tante sinergie artistiche, si uniscono lamentele di chi ha visto anche qui equilibri, soliti, di chi il potere, di voce e di presenza, ce l’aveva e in questi mesi l’ha di nuovo dimostrato. In un’operazione che era difficile sperare che potesse accontentare tutti, ma il cui senso sarà…?

Si parlava mesi or sono di un’occasione da cogliere. La città non si sa quanto abbia risposto; pubblico di addetti ai lavori e di coinvolti dall’eccezionalità di alcune operazioni ce n’è stato, e si avrebbe bisogno delle cartelle dei politici per elencare numeri e quantificare.
Ma non si vuole cadere in questo errore.

Un’isola felice ha avuto il suo ritaglio spazio-temporale nel quadro delle vicende romane, ci si augura italiane. Dei momenti importanti si sono resi possibili, come delle collaborazioni che forse non ci sarebbero state altrimenti. Lo spirito di iniziativa di alcuni ha pagato forse più di quello più timido di altri.
Delle gelosie sono forse affiorate, si sono curate, si sono trasformate: quegli inevitabili risentimenti tra chi tenta di sopravvivere in una città come Roma, per poi tentare di parlare, farsi avanti anche fuori di essa.

Ma la domanda principale, più importante, è: a chi tutto questo interessa? A una città, a un popolo, a cui l’essere popolare, nato per esso, e da esso, del teatro, di questa forma antica di espressione e di condivisione, dovrebbe essere importante come l’aria stessa che si respira, e che invece è visto come bene di intrattenimento di lusso, snob, elitario, quando si è fortunati.

Il nuovo anno annuncia che – e questo era stato detto alla conferenza stampa di lancio di Perdutamente – i lavori trasformeranno l’India e lo spazio antistante in Cittadella del Teatro, luogo d’accoglienza per quel popolo evocato, invocato. Succederà tutto questo? O sarà meglio occupare? Già l’hanno fatto per il Teatro Valle, dove si sta arrivando al secondo anno di occupazione.
Si sta perdendo col tempo l’eccezionalità dell’evento, reso popolare grazie a nomi importanti, che si erano scomodati (Elio Germano, Claudio Santamaria, Fabrizio Gifuni, Franca Valeri, lo stesso Dario Fo…). Da qui Andrea Camilleri aveva lanciato il suo invito a creare altri fuochi, come quello, per l’Italia, così da riaccendere la fiamma, l’ardore del teatro, della cultura…

Una domanda sola, fondamentale, sorge: per quel contributo simbolico di € 5 che più simbolico non ce n’è (ossia il costo del biglietto dell’India per Perdutamente), di persone comuni (il Popolo) quante ce ne sono state? Quante sono state attratte, si sono lasciate stimolare a partecipare, o semplicemente: quante lo sapevano?
L’occasionalità di un evento, la sua eccezionalità, anche se accidentale, si diceva sempre mesi or sono, si doveva trasformare in un’opportunità. Ma è stata l’opportunità di pochi, o di ciò per cui si “combatte”, la cosiddetta Cultura, ad avere avuto voce e incarnazione? O da un’ennesima vicenda tappa-buchi, rivestita di nobiltà, si è stati soltanto capaci di renderla episodio a sé stante?

In questa schizofrenia di ruoli, gli artisti devono essere anche politici, organizzatori, venditori di se stessi, con una classe dirigente e politica sorda, “sintonizzata” solo alle logiche della convenienza per il dato momento in cui si vive, e non per la progettualità, la prospettiva, il futuro.
Si è persa la rotta, il senso del proprio incedere, divenuto ormai stanco e meccanico, in ripetizione di gesti e azioni, anche solo rivolti alla sopravvivenza?

Una comunità si riconosce anche nella sua capacità di dialogo, nella volontà di appianare divergenze e differenze, nel far convogliare i propri punti di vista e volontà, affinché convergano verso un fine comune.
La rabbia di chi scrive monta e monterà ancora di più se la bellezza che si è provata in molti momenti delle ultime sere all’India non porterà ad altro, non crescerà in altro ancora. Perché invece di sperare, anzi, credere arrogantemente, che a quelle isole, in quelle cattedrali nel deserto che possono essere l’India, il Teatro Valle, e tanti altri luoghi ancora non solo a Roma ma nell’Italia tutta, il Popolo, che non sia di addetti ai lavori, vada e partecipi, perché non pensare invece di andare al Popolo, “raccoglierlo” per le strade, nei suoi luoghi, riconquistarlo di nuovo come sono stati capaci di fare figure maestre come Marco Martinelli e Ermanna Montanari, nella loro direzione della Non-Scuola, e delle ultime edizioni di Santarcangelo?

L’umidità della sera cresce; fuori dal Teatro India i fari continuano a illuminare quei drappi bianchi mossi dal vento, voci di ricordi trattenuti. Le bandiere, orgogliose, sventolano i propri nomi. Nomi di tutti noi, coinvolti direttamente in un cambiamento, capaci di non delegare più a confessori, tramiti verso un (non) dialogo con l’Altissimo, retaggio urticante di una vittimistica aberrazione della religione, di qualsiasi forma, grado e dipendenza, che ha messo radici nel nostro beneamato Bel Paese. Amen.
 

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