Laura Marinoni: io, Blanche, nelle mani di Latella – 2 parte

Laura Marinoni e Vinicio Marchioni in Un tram che si chiama desiderio|Laura Marinoni in Un tram che si chiama desiderio|Laura Marinoni e Vinicio Marchioni in Un tram che si chiama desiderio
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Laura Marinoni in Un tram che si chiama desiderio
Laura Marinoni in Un tram che si chiama desiderio (photo: Fabio Lovino)
Riprendiamo oggi la nostra chiacchierata con Laura Marinoni, protagonista femminile de “Un tram che si chiama desiderio” per la regia di Antonio Latella. Una seconda parte della lunga intervista a un’attrice che a giugno ritirerà il Premio Hystrio all’interpretazione 2012; mentre Latella sarà quest’anno Premio Hystrio alla regia, come ci ha svelato in anteprima Claudia Cannella, direttrice della rivista Hystrio.

Sentendo alcune anticipazioni-gossip, lo spettacolo avrebbe dovuto essere l’evento più scabroso della storia del teatro, in particolare per la scena in cui Mitch si masturba in proscenio. Invece si è rivelato molto diverso da queste aspettative.

Secondo me quella è una scena di uno strazio infinito. Mitch piange mentre compie questo gesto. Ciò detto, io stessa ho paura della risposta del pubblico. Per questo tutte le sere piango con una certa ostentazione, per prevenire le reazioni della gente, come a dire: “Guardate che è una scena drammatica. Lasciateci stare per favore”. A Roma una signora della seconda fila si è alzata gridando: “Io me ne vado”. Giuseppe [Lanino, ndr] masturbandosi le ha risposto: “Ecco, brava!”.
Mio figlio, che ha sedici anni ed è poco interessato al teatro, non conosce Tennessee Williams e si scoccia molto a vedere sua madre che recita, dopo lo spettacolo mi ha detto: “Ma’, molto meglio del solito!”.

È anche rincuorante vedere la gente che se ne va dalla sala, perché è giusto che, entro una certa misura, qualcuno se ne vada. Sarebbe bello se, in questo Paese, qualcosa fosse fatta per i giovani, mentre a sovrabbondare è il giovanilismo.
Non è solo un fatto anagrafico. Purtroppo una parte di pubblico adopera le stesse categorie critiche che usa stando seduta sul divano davanti al televisore. Questa mentalità da abbonato trova purtroppo molti sostenitori. Bisogna cominciare a costruire un contrasto, che definisca gli ambiti propri del teatro. Sarebbe invece molto interessante intervistare alcuni di quei vecchi abbonati che sono rimasti fino alla fine…

Laura Marinoni e Vinicio Marchioni in Un tram che si chiama desiderio
Laura Marinoni, Vinicio Marchioni e l’icona di Marlon Brando (photo: Fabio Lovino)
Torniamo allo spettacolo. Il valore storico di questo lavoro sta nel fatto di essere un’opera compiutamente e coscientemente manierista. Un manierismo che guarda a tutta la sperimentazione degli anni Settanta: luci a vista, teatro a vista, microfoni dappertutto. Guarda anche al teatro di Ronconi: c’è il narratore che incarna talvolta il punto di vista dell’autore talvolta quello del regista, c’è un uso teatrale delle didascalie. Guarda alla tradizione teatrale e cinematografica di questo testo, allora l’icona di Brando rivive sulle magliette del protagonista.
Guarda al mito, che ci portiamo addosso. Questo espediente credo che abbia proprio questo significato, al di là della strizzata d’occhio allo spettatore. Non possiamo cancellare il passato, è vero, ce lo portiamo addosso, costretti a seguirne i modelli.

Da un’altra prospettiva, questa dimensione incarna il processo creativo di Latella, che procede esasperando nuclei tematici e testuali, spingendoli verso una estrema teatralizzazione. Torniamo all’esempio dell’odio di Blanche per “la luce delle lampadine nude” ed eccola in proscenio, brutalmente sovraesposta.
Insieme a questo livello fondamentale della rappresentazione, una corrente di realismo attraversa la messinscena e si traduce in una profonda adesione alla realtà dell’evento scenico. Ciò corrisponde alla dicotomia, esposta nelle parole di Blanche, tra “realismo” (nel senso di “verità” o “realtà”) e “magia” (nel senso di “finzione”). Anche in questo caso avviene quello che dicevi. La messinscena esaspera questa polarità, per altro, costitutiva di ogni fatto teatrale. La convenzionalità del dramma è mantenuta e svuotata, è letteralmente sovresposta. È un quadro naturalista costruito sul niente, in un contesto fortemente straniante. Penso soprattutto alla seconda parte dello spettacolo.

Quali scene ha più nel cuore?
Sono tanti i bei momenti di questo lavoro. Sicuramente sono molto legata alla parte iniziale. È davvero emozionante entrare dal niente nel testo e regalare al pubblico la percezione dell’attore prima che venga costruito il personaggio. Gli attori si presentano di fronte al pubblico e riferiscono, quasi non fossero frasi del personaggio, le parole del testo, guardando negli occhi lo spettatore nella sala illuminata a vista. Sono formule che non appartengono alla “verità” del testo rappresentato ma alla realtà dell’evento.

A differenza di tanta drammaturgia e di tanti classici del teatro, quest’opera è fatta di elementi in cui tutti immediatamente si possono riconoscere. È un mondo che ci appartiene: noi “siamo americani”, come “lo è” Stanley Kowalski, nato negli Stati Uniti figlio di genitori polacchi. Il contesto a cui l’opera fa riferimento ci riguarda. Allora lo spettacolo ne può restituire un’immagine sovraesposta e denunciarne la convenzionalità.
A questo punto, un altro tema magari più scontato, ma non da poco, è quello della pazzia. Chi è la matta? Blanche è fatta rinchiudere in manicomio, perché ha rivelato a tutti la loro vera identità: a Mitch, a Stella, allo stesso Kowalski.

Non credo lei abbia fatto molti spettacoli guardando negli occhi gli spettatori, in una sala illuminata a giorno. Che effetto fa?

Adesso mi piace moltissimo, ma è stato faticoso. Soprattutto all’inizio, quando lo spettacolo non era ancora nelle mie mani. La memoria non è una cosa semplice in questo spettacolo, perché non hai riferimenti concreti. Non dico “salute” alzando il bicchiere, lo dico guardando la signora della sesta fila. La matrice della memoria è completamente diversa. Per di più ho un’enorme quantità di testo. La difficoltà è che devi avere una concentrazione esasperata, moltiplicata rispetto a uno spettacolo normale. In questo mi aiuta molto la presenza del dottore che, senza uscire dalla finzione, interviene se avverte qualche gap. Questo è l’unico sostegno.
Inoltre, guardando in faccia gli spettatori, può capitare di cogliere la contrarietà di alcuni, oppure una sorta di approvazione, o di ilarità. Devo stare molto attenta a non lasciarmi influenzare. È una grande sfida. Tuttavia le circostanze in cui siamo costretti a lavorare rendono inevitabile l’ascolto del pubblico. È bellissimo quando, alla fine, vedi i volti delle persone trasfigurati.
La vera volgarità non è la scena di cui parlavamo, ma è la maleducazione che spesso misuri tra gli spettatori e con cui talvolta sei costretta a confrontarti. Ho profondo rispetto per la signora che si sente turbata dalla scena osé, non è questo il tipo di spettatore a cui mi riferisco e non è questo che non riesco a comprendere.

In questo spettacolo c’è anche molto cinema. Appartiene alla tradizione del testo.

C’è la diretta cinematografica. Al cinema l’attore è sempre sovraesposto, mentre si è portati a immaginare che il cinema sia la cosa più intima del mondo.
Sera dopo sera, la fatica più grande è recuperare le energie. Perché sul palco spendo tutto di me, ciò che attoralmente sono capace di governare e ciò che comunico al di fuori delle mie possibilità di controllo. Non tutto a teatro, come nella vita, si comunica in modo cosciente. La regia è molto aperta, pur essendo molto rigorosa. Anche per questo, ogni santo giorno, facciamo una riunione di compagnia e parliamo della recita della sera prima.

Laura Marinoni e Vinicio Marchioni in Un tram che si chiama desiderio
Laura Marinoni e Vinicio Marchioni in Un tram che si chiama desiderio (photo: Fabio Lovino)
È curioso notare come il dottore, chiaramente uno psichiatra, si trovi sempre concretamente nella posizione da cui il regista osserva l’azione. Talvolta il suo punto di vista coincide con quello dell’autore. Penso specialmente alla seconda e “naturalistica” parte dello spettacolo. Qui il narratore, non visto, illumina dall’esterno quanto accade davanti ai suoi occhi.
Il dottore è anche il nostro direttore artistico. In questo Antonio è perverso. Ha dato a Rosario [Tedesco, ndr] la direzione artistica, continuando a essere con noi attraverso di lui. Rosario, in effetti, è l’unico che vede tutto, può prendere appunti e dire a ciascuno di noi che cosa è successo durante la recita. Così la temperatura di quello che facciamo è fortemente sotto controllo.
Principalmente lo spettacolo arriva al pubblico con grande intensità, come un pugno nello stomaco. Tuttavia possiede in termini musicali molti pianissimi, adagi, silenzi, che dobbiamo essere capaci di calibrare. È veramente un’opera corale, dove tutti i personaggi sono scritti dal loro autore a livelli assoluti. In questo Tennessee ricorda Cechov.
Per la prima volta, attraverso l’idea registica di inserire un dottore, vengono recitate anche le didascalie del testo, che sono estremamente ironiche e attraversate dalla stessa corrente di realismo che attraversa l’opera. Sono ironiche e graffianti. Si pensi alla descrizione di Stanley Kowalski: “Alto un metro e settantacinque, giudica le donne secondo il loro tipo di sessualità”.
Nei testi di Tennessee Williams c’è, inoltre, una fortissima dimensione autobiografica. I principali personaggi femminili delle sue opere, seppur di diversa età anagrafica, sono figure della sorella Rose, Blanche compresa. Finzione e biografia si confondono spesso in maniera sconvolgente. Talvolta il realismo dell’autobiografia è tale che l’autore non cambia nemmeno il nome ai personaggi. Impressiona molto questa esibizione del dato autobiografico, fatta dolorosamente e senza pudore, con un coraggio incedibile. Anche le scelte tematiche – la pazzia, l’omosessualità, l’alcolismo –  ci mostrano un autore assolutamente privo di pudore, se lo consideriamo in rapporto alla sua epoca. Un racconto, ancora del ’47, si intitola “Il massaggiatore negro e il desiderio”. A quel tempo certe cose non potevano essere mostrate, ma Tennessee le ha scritte, non ha scritto la masturbazione di Mitch, ma ha scritto lo stupro di Blanche.
Antonio diceva sempre che, anche volendo, l’autore non avrebbe potuto finire quest’opera in altro modo. Per la società americana di allora una donna del genere doveva finire in manicomio: pedofila, ninfomane… Senza questo tipo di conclusione l’autore non avrebbe potuto raccontarne l’esistenza.

Torniamo all’inizio dello spettacolo che, a suo modo, è una lezione di teatro. Lei è ferma, immobile davanti al pubblico. Volta per volta si costruisce la possibilità di scaricare la tensione fisica in eccesso, mentre con arte e limpidezza dell’eloquio riferisce le parole di Tennessee. Moduli che contrastano con una scena teatrale del nostro paese, un po’ fiacca.
Quando ho capito di che morte dovevo morire, mi è venuta in mente un’Orestea di Peter Stein che vidi tanti anni fa ad Ostia Antica. Edith Clever faceva Clitemnestra. A un certo punto dello spettacolo, dopo un percorso, l’attrice si fermava sull’uscio di una porta e, immobile, recitava un monologo di circa quaranta minuti. Una delle più belle performance che io ricordi. Il testo era in tedesco ed io non capivo una parola, ma non potevo staccarmi da lei.
Ogni sera, al momento dell’ingresso in scena, cerco di ricordare come sono entrata la prima volta. Allora mi domandavo come avrei potuto fare Blanche in condizioni del genere, senza niente. Senza oggetti, senza scena, senza rispondere alla tipologia “biondo emaciato” di Vivien Leigh, senza nemmeno poter pronunciare le prime battute del personaggio: “Mi hanno detto di prendere un tram, che si chiama desiderio”. Perché Antonio le ha date al dottore.

Le battute che si ricordano tutti.
Sono sicura che Antonio l’avrà fatto apposta. Lui sa perfettamente che è difficile stare un’ora e mezzo in proscenio, in una dimensione fortemente controllata, perché sa che il linguaggio analogico è molto più forte del linguaggio della comunicazione. La bravura dell’attore è saper usare tutte le proprie difficoltà al servizio di quello che sta facendo. Antonio lo sa e conosce le mie qualità. Credo che questo sia uno dei motivi della sua scelta registica.

In questa dimensione è particolarmente bello il rapporto con le didascalie. Molte cose che il testo di Williams teatralizza non sono riprodotte nella messinscena. Spesso lei resta immobile, mentre la voce del narratore descrive i gesti della protagonista. Allora la gente vede quello che le parole raccontano.
Abbiamo provato a seguire le didascalie, poi Antonio ha scelto questa strada. Consideriamo per un attimo la scena che segue il momento del compleanno: “Va in bagno, si stringe le mani alla gola, ancora più forte, ancora più forte, non ce la fa, non ce la fa. Rumori di soffocamento”, così recita la didascalia. Blanche tenta di ammazzarsi. Di fronte a questo, non puoi che essere una maschera di pietra. È una tragedia greca. È un testo epico. Purtroppo io non vedo niente di questo spettacolo, perché sono sempre in proscenio, con dei fari puntati addosso. Ma credo sia interessante!
 

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