Marjorie Prime: Raphael T. Vogel e Ivana Monti tra Alzheimer e fantascienza

Ivana Monti ed Elena Lietti (photo: Noemi Ardesi)
Ivana Monti ed Elena Lietti (photo: Noemi Ardesi)

Il dialogo che intrecciamo con chi non c’è più. I temi della vecchiaia, del decadimento fisico e mentale, della morte. La riflessione sui ricordi come aspetto fondante dell’identità unica e irripetibile della persona, che nessun artifizio può clonare. E tuttavia, la delega dei legami affettivi perduti a un’intelligenza artificiale, nell’illusione di spostare indietro le lancette del tempo.

Malattia e fantascienza. Ma sono soprattutto la famiglia e le relazioni umane al centro di “Marjorie Prime” testo di Jordan Harrison finalista al Premio Pulitzer 2015, regia di Raphael Tobia Vogel, di scena fino al 17 novembre al Teatro Franco Parenti di Milano. Alla sua terza regia, Vogel scandaglia la drammaturgia di Harrison liberandone tutte le potenzialità espressive e il sottotesto, grazie anche a quattro attori di rara intensità.

In un futuro non così lontano, l’ultraottantenne Marjorie (Ivana Monti), sta vivendo i primi sintomi del morbo di Alzheimer. Per frenarne il decadimento, la figlia Tess (Elena Lietti) e il genero Jon (Pietro Micci) chiamano in servizio Prime (Francesco Sferrazza Papa), proiezione digitale e ringiovanita di Walter, marito di Marjorie deceduto da alcuni anni. Prime si nutre delle memorie di Marjorie e dei suoi familiari, le riorganizza, cerca di avvicinarsi il più possibile alla persona di Walter provando a riprodurne i moti più nascosti dell’anima. Marjorie racconta aneddoti della propria vita con Walter a Prime, e si diverte a riascoltare il nuovo racconto edulcorato e abbellito, che diventerà il suo nuovo ricordo.
In questa famiglia che si compone anche dei tre figli di Tess e Jon – ma in scena non li vediamo mai – si susseguono gli anni e le morti. Altri replicanti sembrano pronti a rimpiazzare i defunti.

Ivana Monti, musa di Strehler, restituisce al pubblico ogni singola sfumatura della malattia di Alzheimer: sono gli stati d’animo oscillanti, l’alternanza di lucidità e incoscienza, la pelle del viso distesa o increspata, gli sguardi assorti, i sorrisi fragili, gli occhi bonari, ebeti, apatici, le labbra serrate, scolpite dalle luci di Paolo Casati. La fronte di Marjorie si fa sempre più imbronciata, il grugno cristallizza una smorfia di disappunto. Avvertiamo l’avanzare dell’Alzheimer dai capelli arruffati, dall’incontinenza urinaria e sfinterica, dalla riluttanza a lavarsi. Un senso di disordine è il risultato tra la recalcitranza della malata e la coscienza debilitata dei parenti.

Calando dall’alto e risalendo come la vela ammainata di una nave, il sipario scandisce le sequenze della storia. Dentro il soggiorno, campeggia una poltrona vecchia e pesante. Una finestra dall’ampia vetrata, digitale come i replicanti, mostra il cielo e il mare, la neve e le nuvole. La finestra è riflesso dell’anima: non l’avvicendarsi ciclico delle stagioni, ma l’inesorabile, lineare, declino della vita; lo sfiorire del blu estivo nell’algore grigio cupo. Sprazzi dall’“Inverno” di Antonio Vivaldi diventano interstizio drammaturgico.

I ricordi sono foto ingiallite dentro una cassapanca. I dialoghi fra Marjorie e Tess, fra Tess e Jon, sono istantanee del passato: gesti, parole, rimbrotti. Sono i dettagli di un amore. Una maieutica di domande e risposte scortica il tempo, sprigiona immagini remote.

“Marjorie Prime” è un testo sul dolore e sul vuoto. Uno strappo percuote la scena. I protagonisti annaspano nel passato in cerca di un gancio salvifico. La vita è nelle crepe della memoria.
Ci piace pensare a quelle copie digitali non come a degli ologrammi senz’anima, ma come a proiezioni oniriche di legami e sentimenti. Ecco perché i replicanti sono più puri e astratti degli originali in carne e ossa. Questo percorso è cammino d’isolamento verso una lenta riappropriazione di sé.

Lo sguardo umanissimo del testo non offre facili consolazioni. Vogel chiude il sipario non con una risposta, ma con la certezza del dubbio. Resta il dilemma se, dopo una perdita, sia meglio tornare all’amore e alla vita, oppure rassegnarsi alla sconfitta, rinunciando al sentimento, cedendo al peso che il dolore comporta. La risposta di Marjorie ormai stemperata in un orizzonte trascendente («che bello aver potuto amare») non dirada le incertezze.

MARJORIE PRIME
di Jordan Harrison
traduzione Matteo Colombo
regia Raphael Tobia Vogel
con Ivana Monti, Elena Lietti, Pietro Micci, Francesco Sferrazza Papa
scene Marco Cristini
luci Paolo Casati
costumi Sasha Nikolaeva
video Cristina Crippa
assistente alla regia Beatrice Cazzaro
assistente scenografa Katarina Stancic
direttore di scena Mattia Fontana
elettricista Paolo Casati
fonico Davide Marletta
sarta Caterina Airoldi
scene costruite presso il laboratorio del Teatro Franco Parenti
costumi realizzati presso la sartoria del Teatro Franco Parenti diretta da Simona Dondoni
produzione Teatro Franco Parenti

durata: 1h 25’
applausi del pubblico: 3’

Visto a Milano, Teatro Franco Parenti, il 31 ottobre 2019

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