Lucia Calamaro nel verde dell’Origine del mondo

L'origine del mondo di Lucia Calamaro
L'origine del mondo di Lucia Calamaro
L’origine del mondo di Lucia Calamaro (photo: teatrodiroma.net)

Chissà, forse è per puro caso che Lacan si è trovato  legato ai destini del celebre quadro di Courbet dal titolo ‘L’origine del mondo’. “[…] Io pensavo che il mondo così concepito/ con questo super-cadere super-morire/ il mondo così fatturato/ fosse soltanto un io male sbozzolato/ fossi io indigesto male fantasticante/ male fantasticato mal pagato/ e non tu, bello, non tu «santo» e «santificato»/ un po’ più in là, da lato, da lato”.
(Andrea Zanzotto, da “La Beltà”)

Non c’è alcuna vera malevolenza nelle crudeltà più feroci che si compiono e si subiscono nei rapporti intimi. Familiari. Spesso, quelli tra madre e figlia. Questo a un certo punto della vita capita – se non di capirlo – di viverlo. Perché? Perché proprio ‘qui’ ci riesce di essere sempre nel modo più sbagliato, di mostrare quello che crediamo il nostro lato peggiore, di agire nella maniera che più ci fraintende? Perché si dicono e ci si sentono dire proprio le cose che feriscono di più? Perché quelle e non altre? E perché ci vengono dette da qualcuno che, quasi per statuto, dovrebbe essere “l’amore incondizionato”?

E cosa sarebbe poi questa cosa, e cosa siamo noi quando siamo in casa, così diversi, dove sta la verità degli altri se noi stessi non riconosciamo la nostra? Quali siamo noi, dei due, o tre, o quattro, veramente? E gli altri quanti sono?
Ci sono le parole pronunciate e poi le decine di discorsi che le parole si trascinano con sé, tre o quattro discorsi per ciascuna delle due o tre persone che abitano il singolo corpo che sta lì, accanto a noi, e fa quello che deve fare.

Lucia Calamaro si è messa sulle tracce di queste e di tante altre questioni, e invece che lasciarsi intimorire da tutti i rischi che comportano (rischi artistici, rischi tematici, rischi psichici, rischi umani) ha creato un’opera di spessore, in cui anche l’evidenza del più sfrontato egoismo viene accolta ed esibita e presa sul serio senza mezze misure e senza vittimismi.

Come accennano le note di regia, è una questione molto personale quella che viene rimasticata, ma pure scompare il dato biografico in un ritratto aperto, narrativo ma mai definitorio. Un segno preciso che però non si autoconclude ma apre a nuovi scenari, tutti da lavorare da parte di chi guarda, quando rientrerà poi, ore dopo, nella propria vicenda e nel proprio dato biografico. Potremmo anche citare esempi novecenteschi di operazioni artistiche simili (da Bernhard a Reitz); ma non arricchirebbe ulteriormente il materiale già presente se non per ‘sovrimpressioni’.

Per limiti di chi scrive e per condizionamenti del mezzo non è possibile affrontare qui tutti i nuclei e i segni di questa “Origine del mondo”, non riconducibile a livello tematico a un semplice rapporto nonna-madre-figlia. E questo non solo perché di mezzo ci sono anche altre figure (la psicanalista, l’ombra di un marito, tutti ‘gli altri’), bensì perché questa semplice triade crea tutta una serie di inflorescenze difficilmente gestibili; è come un cotiledone che nutre tanti embrioni di piante e le fa germogliare di continuo. E noi ci troviamo lì, stupefatti, nel fitto improvviso, nell’intricarsi del verde. Per procedere dobbiamo tagliare col machete.

Seguire le parole a un primo ascolto di qualcosa è difficile, talvolta faticoso; si afferrano solo piccole parti, ci si distrae, ci si perde. Ecco perché è una vera e propria alchimia il pieno del testo che riempie il vuoto dello spazio: le parole si seguono, tutte, e il fatto che siano tante è finalmente il poter dire che non siano troppe, e che siano complesse è la testimonianza di un rispetto e di un’ambizione e di una libertà che molto raramente ci si prende o ci – e si – concede.

La trama delle citazioni, in questo lungo lavoro composto da quattro episodi, non è mai un’esibizione gratuita ma è al contempo funzionale al senso, al personaggio, e alla consapevolezza del proprio ‘altro’ a cui ci si rivolge. Se Wittgenstein non è citato a vanvera, e si sa chi è il proprio interlocutore, e la figura in scena ‘deve’ citare Wittgenstein per restare in vita dentro la sua vita, ebbene non è affatto lettera morta o intellettualismo o autocompiacimento. Soprattutto quando non c’è eccesso, ma l’insieme viene calibrato con sapienza.

Tutte queste parole vengono consegnate a delle attrici che ne sono abitate e le restituiscono con una presenza, una consapevolezza, una ferocia che solo di rado accade di incontrare. A Federica Santoro è dato un compito di equilibrismo difficilissimo, che lei non svolge ma incarna – e lo fa da togliere il fiato. La stessa Calamaro, quando erompe dall’argine della quinta, è una figura nei suoi eccessi mai fuori luogo, capace di affrescare con leggerezza un modo di pensare il mondo che nello spettacolo doveva entrare. Per parlare di Daria Deflorian, dentro questo spettacolo si sono levate entusiaste molte voci – e questo davvero a ragione.

Ma forse non basta una platea entusiasta e commossa a decretare che un attore è un grande attore; non bastano i premi (anche quelli a cui si viene semplicemente candidati), né le recensioni né le commissioni. Niente è abbastanza, perché è qualcosa che a un certo punto succede, che si vive insieme; durante uno spettacolo succede che si pensa: “Ecco, questo è ‘quella cosa’”.

La figura minuta, franta, ritta nell’enorme spazio vuoto appena pennellato dalle luci sempre eleganti di Gianni Staropoli, la figura di questa donna di nome ‘Daria’ (che è madre, figlia, moglie, ma soprattutto una ‘natura morta’ incognita a se stessa) fa sentire proprio questo: che quello che stiamo ora vivendo con (e grazie) a lei è ‘quella cosa’.
Si configura all’orizzonte qualcosa che non sospettavamo: che anche noi, forse… ? E nostra madre, forse, anche lei dunque…? E quelle donne, là, nei supermercati, alle poste, sul divano, in ufficio, su un palco, dietro un vetro, al tavolino di un bar…? E gli altri, tutti gli altri infine si sentono, anche loro si sentono, o forse sono…?

L’origine del mondo. Ritratto di un interno
spettacolo in quattro episodi
scritto e diretto da Lucia Calamaro
con: Daria Deflorian, Federica Santoro, Lucia Calamaro
disegno luci: Gianni Staropoli
realizzazione scenica: Marina Haas
aiuto regia: Francesca Blancato
produzione e comunicazione: 369gradi, PAV
prodotto da: ZTL_pro con il contributo di Provincia di Roma, Assessorato alle Politiche Culturali in coproduzione con Armunia e Santarcangelo 41 Festival internazionale del teatro in piazza
in collaborazione con: Fondazione Romaeuropa, Palladium Università Roma Tre, Teatro di Roma
durata: 4h 30′
applausi del pubblico: 5′ 20”

Visto a Roma, Teatro India, il 26 febbraio 2012

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1 Comments

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  1. says: alice

    bello il tuo pezzo, in sintonia con la profondità del lavoro che ho trovato anch’io straordinario, un raro esempio di teatro che scava dentro senza orpelli.