Ostermaier, Spregelburd, Cervo e Mayenburg. Giocando a dadi col Nome di Dio

Call me God
Call me God
Call me God (photo: romaeuropa.net)
Avrebbe potuto risultare un’opera fin troppo cerebrale; invece è arrivata a sorprendere nelle economie di un festival, Romaeuropa, che si è dimostrato finora intelligente e intuitivo nelle scelte compiute. Confermate nel dare fiducia a chi, sulla carta, ne aveva di numeri, eccome, nelle proprie opere al singolare: ma declinati al plurale come si sarebbero comportati?

Gian Maria Cervo, Marius von Mayenburg, Albert Ostermaier e Rafael Spregelburd hanno scritto ad hoc quattro drammaturgie, quattro variazioni sul tema a partire dalle incresciose, terrorifiche, anche se più avvolte allora dall’egida terroristica, vicende che sono piombate addosso a ignari passanti nell’Usa post 11 settembre.

Si sta parlando dei “Beltway sniper attacks”, gli attacchi dei cecchini della circonvallazione, che nell’ottobre 2002 tra Washington D.C., il Maryland e la Virginia causarono dieci vittime. Si scoprì che colpevoli erano John Allen Muhammad e Lee Boyd Malvo, un quarantenne e un diciassettenne dalla “carnagione scura” che, appostati su una Chevrolet Caprice – mai nome potrebbe essere più circostanziale… – carichi di odio, in quell’atmosfera satura di paranoia da complotto, e di ambizioni nichiliste/divine, si decisero a calarsi nel ruolo di chi dona vita, e soprattutto morte, dimenticandosi che, per chi crede, è solo Dio a giocare a dadi con la vita dell’uomo…

“Call me god” è il titolo definitivo dell’opera montata a partire dai quattro testi, per la regia di Marius von Mayenburg, demiurgo prescelto per rendere in scena i differenti stili e punti di vista sull’argomento che da sempre dà fondamento, ed è scintilla, a qualsiasi opera di creazione: la libertà dell’uomo.
Sotto l’unica regia di von Mayenburg, lo spettacolo si dipana come un singolo corpo dai mille tentacoli, grazie a quattro drammaturgie dall’essenza e dall’impatto narrativo e di registro così differenti, eppure ben fuse con l’insieme del lavoro.

A 11 anni dall’11 settembre, e a 10 da quei 23 giorni di follia che imperversarono per le strade americane, nella società della comunicazione non solo di massa, ma massificata dagli strumenti social(i), dai motori di ricerca, dall’ansia di visibilità, e di notorietà, che però si mischia e marcisce nella perdita dell’area del privato (almeno un tempo si poteva dire “Vizi privati e pubbliche virtù”, ora tutto ciò sconfina e si perde nella vaghezza nebbiosa della non identità) si arriva, traslando in parallasse i piani di visione, a sconfinare nell’ansia di sicurezza dei tempi che corrono, che inevitabilmente riportano alla domanda, che scaturisce dall’imperativo di forma, che voleva essere allora di sostanza, ritrovato vicino alla scena di un “Beltway sniper attacks”: “Call me god”, impresso su di una carta da tarocco, scritto da uno dei folli mietitori, John Allen Muhammad.

Era partita con il titolo di “Quicksand” l’opera che è andata in scena dal 4 al 6 novembre al Teatro Argentina di Roma, a racchiudere la fretta del tempo, sabbioso, che (s)corre, nel vortice che si è creato sotto al peso dell’uomo, che sempre più pe(n)sante, e (in)cosciente nel suo sogno dai mille specchi autoriflettenti, vaga carico della frustrazione dell’onanismo della raggiunta non identità.
Dalla presentazione dello spettacolo si legge: “Voci diverse per altrettanti approcci, domande inquietanti come le sabbie mobili del titolo del progetto: oggi serve maggiore controllo in nome della sicurezza oppure le vittime degli attentati sono il prezzo da pagare alla libertà? Controllo, sicurezza, crisi economica, vittimismo occidentale fanno parte di uno stesso fenomeno?”.

A pochi passi di distanza, nell’incedere del tempo, la tragedia avvenuta alla prima al cinema del Batman macchiato di sangue, vicino ai luoghi che videro a Columbine un altro bagno, incomprensibile, di morte; a qualche metro, temporale e spaziale, da quelli altrettanto agghiaccianti di Anders Brejvik (l’assassino seriale nel campeggio di Utoya nella “civilissima” Norvegia), come giustamente ricorda nella presentazione allo spettacolo il critico Attilio Scarpellini: ecco rimaterializzarsi ciò che qui, nel Vecchio Continente, quando capitato in quei 23 giorni da incubo, passò di soppiatto, poco pubblicizzato.
E ritorna prepotentemente come giustificazione per lo sguardo ravvicinato rivolto alla libertà, all’identità, alla verità che “Call me god” è.

Un’opera sorprendente, multimediale, nella sua messa in scena di un’essenzialità complessa: palco spoglio, in cui sull’avanti si succederanno scene definite da un tavolo, qualche sedia, un lettino. Dietro, uno spazio unico tagliato in due: una stanza/cabina con una finestra di plexigrass, e un corridoio/tunnel in cui una parete è trasparente, e un’altra è uno schermo. In alto dei monitor che sovrastano. In tutto questo, la realtà è riprodotta, sezionata, amplificata nei rimandi in video con particolari della storia, sue visioni d’insieme, flash, spot pubblicitari di libri che alcuni esperti, finti, di quella tragedia seriale, anche solo per aver tenuto la mano ad una delle vittime, hanno realizzato, da € 24 a copia, e rintracciabili nel foyer del teatro.

Gli attori si trasformano nelle tante forme – vittime e carnefici – delle vicende. Interpreti eccellenti i quattro, due uomini e due donne, attori del Residenztheater, a supportare questo esperimento multistratificato che va dalla tragedia al comico, dal dolore al sorriso sghembo del grottesco, con fiammate di danza a suon di Beyoncè e “Tu vuò fa l’americano”.
Partendo dall’attuazione della sentenza di morte, comminata per via di iniezione letale a John Allen Muhammad, si procederà per la quasi ora e tre quarti di spettacolo scivolando a ritroso nel tempo, e scavando nelle radici dell’odio, nell’ansia di controllo e di direzione da impartire, per ingabbiare, sedare, contenere ogni tipo di deragliamento dall’indirizzo comune, deciso poi da chi?

“Oggi serve maggiore controllo in nome della sicurezza oppure le vittime degli attentati sono il prezzo da pagare alla libertà?”. L’eco di questa domanda dolorosamente si arpiona nella corteccia cerebrale ed emotiva di ognuno di noi, dimenticando che è stata la fonte stessa della necessità del controllo, l’uomo, a causare un gap ormai forse incolmabile tra realtà e rappresentazione, dove per essere più veri del vero si deve essere amplificati nel loculo (im)materico di uno schermo.

Del resto, una delle più interessanti e attuali series in circolazione nel pianeta Usa, “Person of Interest”, alla scrittura il geniale Jonathan Nolan, non parla forse di una macchina che può “predire”, valutando tutte le incognite possibili e immaginabili (carta bianca per raccogliere tutto il necessario per farlo) chi sarà vittima o carnefice di casi “umani” altresì trascurabili? E, citando ancora Batman e il capolavoro “Il Cavaliere Oscuro”, Christopher Nolan alla regia, Morgan Freeman non consegna a Bale/Batman un’arma letale come una macchina capace di captare onde di cellulari e umani, e sapere dove si trova chi?

La realtà che si presenta attualmente spaventa; a caccia della sicurezza della propria dimensione personale l’uomo ha tagliato le sue possibilità di privato. Nella rete del sapere internauta e senza confini, la stessa conoscenza di altri mondi possibili ha causato l’esasperazione della differenza, causa di quel “Call me God” che si avverte nello stesso inseguire un posto su di un mezzo urbano, o nel traffico cittadino, nell’ora di punta, con odio barbaro e cannibale.

Uno spettacolo fondamentale, quel “chiamami Dio”, non solo per la capacità di tenerti appeso alla scena che si sviluppa sul palco per tutta la sua durata, ma perché lascia echi che crescono, come onde nel tempo, a caccia di orbite intelligibili nel significato umano. Dove basterebbe semplicemente rendere quell’affermazione domanda, una semplice variazione grafica, interrogativa, un “Call me god?”, e avere il coraggio di rispondere, per iniziare a trovare altro, facendo in modo che quel ‘altro’ e la stessa risposta coincidano con una sola parola. Dove non sia più un insieme di “Dio” minori, a rispondere e voler dare risposte, ma tanti semplici – e per questo unici – uomini.

CALL ME GOD
autori: Gian Maria Cervo, Marius von Mayenburg, Albert Ostermaier, Rafael Spregelburd
regia: Marius von Mayenburg
scene e costumi: Nina Wetzel
musica: Malte Beckenbach
luci: Uwe Grünewald
drammaturgia: Laura Olivi
video: Sebastien Dupouey
tecnologia: video Stefan Muhle
suono: Matthias Reisinger
assistente alla regia: Robert Gerloff
assistente scenografo: Bärbel Kober
direttore di scena: Johanna Scriba
soufflage: Angelika Ehrlich
secondo assistente scenografo: Maria Jose Gomez Espinosa
traduzione e sovratitoli: Monica Marotta (Kita)
una coproduzione tra il Residenztheater, il Teatro di Roma, il Romaeuropa festival e il festival Quartieri dell’arte
durata: 1h 40′
 
Visto a Roma, Teatro Argentina, il 6 novembre 2012


 

0 replies on “Ostermaier, Spregelburd, Cervo e Mayenburg. Giocando a dadi col Nome di Dio”
Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *