Lo sguardo visionario di Roberto Castello in Azione. Intervista

Un momento del laboratorio (photo: Simona Cappellini)|Roberto Castello in un momento di prove (photo: Roby Schirer)
Un momento del laboratorio (photo: Simona Cappellini)|Roberto Castello in un momento di prove (photo: Roby Schirer)

Il progetto Azione, per una rete stabile di insegnamento sul territorio toscano, è proseguito con gli incontri di Marco Mazzoni, a dicembre allo spazioK di Prato, e con Charlotte Zerbey a gennaio al Teatro della Limonaia. Ormai in fase conclusiva, seguiamo l’ulteriore tappa di questo lungo progetto stavolta con Roberto Castello, che ha tenuto il suo workshop dal 4 al 9 febbraio.

Il primo gesto a SPAM! è preparare il caffè, aroma che continua a pervadere gli uffici per il resto della giornata, e in qualche modo alleato propulsore di una vita di ufficio intensa e dai ritmi accelerati. Parola d’ordine: sul pezzo.
Ogni giorno è attraversato da miriadi di input, possibilità, relazioni che visti da fuori potrebbero somigliare alle tessere mobili di un mosaico impazzito. A rimodularne la trama è sicuramente la figura di Roberto Castello, che nonostante le innumerevoli difficoltà riesce a tenere insieme un microcosmo autoreferenziale, che non può che contaminare l’immaginazione delle persone che ne fanno parte. E forse, è proprio questo il segreto che regge l’intero sistema Aldes.

Costantemente attraversato dall’urgenza di mostrarci un presente corroso dalla schiavitù del capitale, una modernità fatta di impazienza, di utopia e mistificazione, Roberto Castello è ormai un sismografo dei nostri tempi, che non perde occasione di metterci di fronte al fallimento dell’uomo, e soprattutto di una società che vive nella straniante esibizione di sé stessa.

Ma quale realtà investe la vita del coreografo? Difficile schematizzarne una giornata: prove, riunioni, seguire il settore diffusione, quello organizzativo, la gestione dei bilanci, il tutto inframmezzato da decine di telefonate.

Ci si chiede come riesca, travolto da un tale ritmo, a segmentare ogni aspetto con la dovuta attenzione, e allo stesso tempo lavorare a nuove produzioni, progetti culturali (dal progetto Migrarti al blog 93% – materiali per una politica non verbale), rassegne e laboratori.

Tutto è filtrato attraverso ingranaggi personali che rivelano una realtà visionaria, che si compone per un terzo di reale e per due terzi di reale potenziale. Più che di ricerca si tratta di determinazione a concretizzare forti ideali, che in quanto tali possono a tratti divenire un sogno trasfigurante, ma che il più delle volte si snodano nel raggiungimento di un obiettivo.

Nell’ultima giornata del workshop di Roberto Castello assistiamo soprattutto a esercizi che cercano di condurre i ragazzi ad una maggiore consapevolezza. I danzatori sono più volte invitati a non restare sulla superficie, a recidere il cordone ombelicale con la quotidianità e ad entrare in un nuovo territorio, portando il proprio immaginario. Questo può voler dire doversi liberare di molti concetti intrinsechi. “Paradossalmente è sempre più difficile togliere, che aggiungere” osserva il coreografo. Gli accenti si possono porre con movimenti della testa, espressioni del viso, non necessariamente delegando alle semplici azioni.

Cosa, come, per chi e perché. Sembrano essere queste le domande che un giovane danzatore dovrebbe, non necessariamente in quest’ordine, porsi agli inizi della carriera.

Per approfondire il concetto, e il lavoro fatto, ne parliamo con Roberto Castello.

Un momento del laboratorio (photo: Simona Cappellini)
Un momento del laboratorio (photo: Simona Cappellini)

Aldes ha appena vinto un premio Ubu “per il costante lavoro di ricerca coreografica, unito alla ricerca di nuovi pubblici, e per aver dato vita a un bivio di talenti nel campo della danza contemporanea che è divenuto riferimento a livello nazionale e ha saputo creare una cifra artistica riconoscibile ma non ancorata alla singola poetica di un unico artista”. Come definiresti questa cifra artistica, ovvero: cosa accomuna gli autori Aldes, che in alcuni casi appartengono anche ad ambiti disciplinari e linguaggi diversi?
È una domanda difficile, perché andrebbe discussa e concordata con tutti gli autori. Non abbiamo mai avuto modo di sottoscrivere una sorta di costituzione della visione Aldes, perché alla fine la quotidianità finisce per divorare sempre questo spazio, ma dal momento che può riguardare molti aspetti e molti elementi, che in alcuni casi potrebbero anche non trovare tutti d’accordo, conta molto la formulazione della filosofia che sta alla base, e l’assenza o la presenza di un certo argomento potrebbe fare una grossa differenza.
Posso rispondere a quello che per me dovrebbe essere – o spero che sia – alla base dell’identità di Aldes. Credo che l’elemento distintivo sia perché si fa arte, che non dovrebbe essere un pensiero o un moto di egocentrismo, o di superomismo, ma la necessità di dare forma a una visione del mondo di cui si è convinti, anche se non necessariamente la stessa.
È l’idea che fare arte sia qualcosa che non ha al centro la performance economica, ma il tentativo di trovare delle forme capaci di veicolare quella determinata visione del mondo. Quindi condividere con altri quella visione, non in termini descrittivi, come avviene in ambito giornalistico ad esempio, ma iconizzare in opere quegli oggetti complessi fatti di suoni, musica, luci, persone che riescono a dire ciò che ciascuno ritiene vada detto in quel momento, in quella situazione. Senza dimenticare l’importanza di avere qualcuno che ti ascolta. Questo non per produrre un beneficio economico, né per ottenere popolarità mediatica, ma per il fatto che se parli da solo, in camera tua, non stai facendo arte, ma stai facendo un soliloquio. Quindi nel momento in cui cerchi di essere corretto con te stesso, vicino a te stesso quando intraprendi una operazione artistica, allo stesso modo credo sia giusto che gli altri vengano a sapere quello che dici.

Oltre al perché, quindi, un coreografo dovrebbe porsi anche la domanda, ‘per chi’ dovrebbe produrre. Per sé stesso o per un pubblico? E in questo caso, per che tipo di pubblico?
Credo che la risposta sia parte della precedente. Se vuoi avere successo economico-mediatico devi frequentare certi tipi di luoghi, fare certi tipi di cose, essere all’ultima moda, cavalcare l’ultimo neologismo, essere in quel tipo di meccanismo, e questo è quanto di più lontano è dal nostro modo di fare. Ovviamente io non posso dire a un ragazzo che si avvia alla professione di coreografo cosa deve fare. Ognuno farà ciò che ritiene più giusto.
Come insegnante puoi dare degli strumenti perché facciano ciò che credono, al massimo puoi avere uno scambio di idee sul perché, ma una cosa che mi viene in mente quando penso a quali sono gli elementi fondativi che stanno alla base di Aldes – e non so se gli altri sottoscriverebbero questa affermazione – è che più vado avanti e più mi convinco che la verità non esiste, e che l’idea di verità è un’assurdità. È un’idea estremamente pericolosa dalla quale bisognerebbe liberarsi. Se ci fossero meno persone convinte di possedere la verità molte cose sarebbero più facili. La convinzione che esista la verità è tipica di chi fa scarso uso delle facoltà intellettive. Quindi quello che puoi fare nel momento in cui insegni è cercare di stimolare la voglia di sapere, di conoscere, e in questo sta il potenziale antidoto del perché e del per chi. Poi ognuno darà maggiore importanza alle questioni che più ha a cuore. Chi sceglierà questioni formali, chi politiche, chi sociali, l’importante è che possegga gli strumenti linguistici per farsi capire.

Secondo te ha ancora senso oggi parlare di generi, dividendoli tra danza, teatro e performance?
Una cosa che mi preme dire è che parlare di danza non ha senso. La danza è una categoria merceologica. Sul piano ontologico esistono delle forme di ballo, che vuol dire che c’è una musica sulla quale ci si muove. Questo è ciò che deontologicamente e anche empiricamente trova tutti d’accordo. Ma che esista un terreno che si chiama danza, che possa resistere ad un’analisi seria sul piano deontologico non ha senso. Esistono delle persone, che sono davanti ad altre persone, a fare delle cose.
Nel momento in cui, con l’inizio del ‘900 la danza smette di essere balletto, almeno proprio dal punto di vista del pensiero, dell’approccio, si apre uno spazio nuovo. Credo che i futuristi e i dadaisti facessero danza senza saperlo. In definitiva era quello che le persone decidevano di fare che definiva il campo in cui agivano, non quello che facevano. Quelli che oggi parlano di performance art o di danza hanno in testa il modello del supermercato, che deve mettere delle cose sullo scaffale, nel posto in cui il cliente possa trovarle comodamente, ma non corrisponde a niente sul piano della realtà.
Questo per dire che il campo della dimensione performativa (ma tutto potrebbe ricadere nel mondo del teatro, e nel teatro ci metto Marina Abramovic, Gina Pane, Vito Acconci, Bruce Naumann, cioè anche quelli che dicono di fare cose che non sono teatro, perché sono in malafede, o perché hanno pochi strumenti) è un sistema linguistico veramente complesso, perché c’è dentro la dimensione diacronica, c’è dentro la dimensione spaziale, c’è tutto quello che è la complessità della comunicazione non verbale, cioè l’enormità di dati che si trae anche solamente dalla fisionomia delle persone. E poi c’è il cosa fai e come lo fai, con quale attitudine.
Il punto della danza è che probabilmente viene insegnato ciò che si sa fare, e che il proprio maestro ci ha insegnato, perché la danza viene tramandata in modo orale così come si tramandavano i racconti e le fiabe, che attraverso i nonni passavano di generazione in generazione. Come ogni arte tramandata oralmente lo strumento di archivio è la propria memoria, che per fortuna evolve, perché ognuno la riadatta, ne dimentica un pezzo, la re-interpreta.
La danza il più delle volte è insegnata in questo modo; quelli che hanno studiato con Pina Bausch insegnano i movimenti di Pina Bausch. E tu impari a dire quelle cose in quel modo, ad acquisire dei movimenti in modo naturale, così come quando si imparano poesie a memoria acquisendo anche l’intonazione e le pause.

Ogni coreografo ha un proprio linguaggio. Come pensi che un giovane coreografo possa riuscire a trovare il proprio senza subire – soprattutto in un contesto come questo progetto – le influenze dei principali coreografi del panorama contemporaneo?
Anzitutto non è detto che i coreografi insegnino. Ad ogni modo è che cosa insegni, non come. Io penso che un insegnante dovrebbe essere come un’utensileria: uno va e prende gli strumenti che gli servono a sviluppare e a dare forma ai suoi pensieri nel modo più efficace e più conforme. Per cui si trasmette l’esperienza che si ha a disposizione per dare consigli sulle possibilità di fare una determinata cosa. È più come insegnare grammatica e sintassi piuttosto che letteratura italiana.

Nello specifico, su cosa avete lavorato in questi giorni?
Su cose varie, in modo analitico su aspetti diversi. Vedendo lavorare questi giovani ti rendi conto che su alcune cose sono molto forti collettivamente, e tendi quindi a lavorare su cose su cui sono meno forti, per cercare di trasmetter loro ciò che ancora non sanno.
Le arti performative comprendono elementi sonori e musicali anche quando si è in silenzio, perché la danza e il movimento sono sempre una musica; anche il movimento di un attore ha sempre una struttura musicale, perché c’è un’articolazione di eventi nel tempo, e questi eventi hanno delle dinamiche: ci sono dei forti, dei piani, tacchi secchi, legature infinite, tutte quelle che sono le caratteristiche della musica sono sempre presenti nel movimento.
Un danzatore può non esserne consapevole, e muoversi in modo istintivo, però questo significa anche essere fatalmente ripetitivi. Tutti i danzatori o creatori a un certo punto, quando devono produrre materiale creativo, sentono che ripetono sé stessi. Questo viene parzialmente scongiurato dal fatto di avere strumenti analitici che portano ad un autoesame, a porsi delle domande. A volte la stessa cosa, che oggi funziona, domani sembra completamente diversa. Il punto è sviluppare un occhio abbastanza acuto per vedere cosa è cambiato, avere gli strumenti per capire cos’è variato o cosa andrebbe variato affinché quella cosa di cui cogli un potenziale venga sviluppata pienamente. Questi sono gli strumenti fondamentali, che non significa lavorare alla mia maniera o trasmettere i miei movimenti, ma offrire degli strumenti. In alcuni casi possono essere anche esercizi che ti appartengono, ma sono semplici esercizi, piccole palestre in cui chiedi di focalizzare l’attenzione su alcuni aspetti molto in dettaglio, curando dei particolari in modo tale che nell’esecuzione ci siano più colori, più sfumature, oppure apprendere ed essere consapevoli di come si può modulare l’energia, e cosa questo racconta a chi guarda.

AZIONE_2018/2019
Aldes/Cab 008/Compagnia Simona Bucci/Company Blu/KLm-Kinkaleri, Le Supplici, mk/Sosta Palmizi
Progetto per una rete stabile di insegnamento sul territorio toscano
Con il sostegno di MiBAC e di SIAE
nell’ambito dell’iniziativa “Sillumina – Copia privata per i giovani, per la cultura”

0 replies on “Lo sguardo visionario di Roberto Castello in Azione. Intervista”
Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *