Saccarina, l’amaro in bocca di PianoinBilico

Saccarina - Pianoinbilico
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Saccarina – Pianoinbilico
Milano, due attori (e un cane) alle prese con un produttore megalomane (e un autore invisibile), in ballo con la registrazione della puntata (pilota) di una fiction televisiva.
Un Lui e una Lei, mentre aspettano l’occasione di un lavoro (retribuito) in teatro, tirano fine mese tra “delle cose in tv”, magari seconde (e terze) serate in emittenti locali, e notti nei locali (dalla parte del bancone però, a servire, e pulire).
A tutti i costi inseguono un sogno, e si danno appuntamento per un caffè, per pianificare la strategia. Solo che, dai tavolini esterni di un bar “frequentato da una clientela di merda”, non possono che osservare, e constatare, che la loro città non è un posto migliore (nonostante l’imminente Expo, e la moda etc. etc.), e nemmeno quel luogo in cui pensare di invecchiare decentemente.

Lascia un gusto amaro in bocca “Saccarina”, spettacolo prodotto dalla compagnia PianoinBilico, prima rappresentazione del testo finalista del Premio Riccione per il Teatro del 2007 scritto da Davide Carnevali, giovane drammaturgo milanese (più attivo all’estero che nel teatro italiano).
Con la sua collaborazione, Fabrizio Martorelli, Silvia Giulia, Mendola e Alberto Onofrietti hanno messo in scena lo spettacolo che ha debuttato allo Spazio Tertulliano di Milano nei giorni scorsi.
Mai momento migliore: il testo, seppur scritto nel 2005, parla proprio delle tematiche che riguardano la situazione socio-culturale oggi, e proprio a Milano, dove (incredibilmente) la maggiore attenzione nelle ultime settimane è indirizzata al “rapporto tra giovani e mondo del lavoro” e, nello specifico, dei lavoratori dello spettacolo.

Come centinaia di artisti, cineasti, attori, musicisti, scrittori, giornalisti, insegnanti, performer… che, accomunati da un nome (Macao) e dal rifiuto della precarietà come presupposto di lavoro (e di vita), si incontrano per rendere possibile una realtà (e una città) diversa, così, i due di “Saccarina”.
Anche loro partono dal recupero urbano, si beccano per mezze ore a discutere sugli abitanti del quartiere, ad analizzare per definire nuove e migliori pratiche del vivere sociale; anche loro mettono insieme diverse competenze professionali e meditano, progettano, prospettano piani di gestione degli spazi pubblici e degli investimenti, avanzando idee in fatto di politiche culturali, e urbanistiche. Anche loro, in sintesi, sono d’accordo sul fatto che avere un lavoro che non ha né un luogo né un valore economico corrispondente e riconosciuto, nega il lavoro stesso.

La differenza è che, mentre i Lavoratori dell’Arte (si) occupano per fare sì che alle necessità della reale società risponda (almeno) una voce della spesa pubblica (e certamente per andare avanti nelle necessità quotidiane), mettendo in comune e a disposizione della città saperi e mestieri, i due milanesi, invece, fanno della bugia, della falsità, dell’inganno, un’arte e un mestiere.
Amici, forse ex fidanzati, si nascondono dietro a false maschere, falsi lavori, per la vergogna di ammettere che non ce la fanno a vivere, “a pagare le bollette”, se non cedono al compromesso. La loro è la deriva negativa di una stessa storia, quella rappresentata dalla svendita dell’uomo (artista o meno) che, in un ambiente che non lo accetta e che lo non riconosce più, si lascia depravare. Seppure in nome di un sogno vero.

Il loro dialogo è come la sbobinatura di una conversazione registrata davvero in quel bar, e ne contiene tutte le impurità. Il merito è certamente della scrittura di Davide Carnevali, che restituisce le impressioni di questa natura umana: momentanee, fuggitive e nascoste, trasparenti ma palpabili, oniriche eppure materiali. E il valore aggiunto va all’interpretazione degli attori, che danno vita ai profili umani tracciati dal quadro di Carnevali, dando un peso specifico alle tante figurine di un universo presente che, nelle didascalie del testo, è precisamente Milano, ai “tavolini esterni di un bar della zona sudest della città”.

La scrittura di Carnevali ha la forza di essere stesura del reale visibile, immagine del particolare tratto dagli eventi del giorno. Ecco perché contiene più banalità che concetti dichiarati; più meschinità e ipocrisie che schiettezza. Ecco perché capita di trovare in “Saccarina” atteggiamenti e passioni morbose, frenesie diventate costume, perversioni di tendenza, stranezze come prassi.

Il problema è che, se il testo va da sé, la sua messa in scena non aggiunge altro e, anzi, presenta un rischio: il parlato così com’è, i veri modi di dire usati, i riferimenti a Milano e ai milanesi dell’ultima ora (vedi Boeri), paradossalmente distanziano e, peggio, risuonano come le solite storie.
Da parte di tre interpreti esperti e realmente capaci (eccessivi nel giusto e verosimili quanto basta, comunque centrati nei personaggi), sarebbe stato possibile, e apprezzato, l’uso di una mano più pesante sulla regia.
Che trasporre in scena (parola per parola) il testo (con l’accortezza di aggiornare i nomi) sia stato un gesto di disubbidienza per unirsi alla contestazione dei lavoratori dello spettacolo? In ogni caso, un’occasione in parte mancata.  

SACCARINA
di Davide Carnevali
diretto e interpretato da Fabrizio Martorelli, Silvia Giulia, Mendola, Alberto Onofrietti
musiche originali: Zibba
produzione: PianoinBilico
durata: 1h 30′
applausi del pubblico: 1′ 05”

Visto a Milano, Spazio Tertulliano, il 20 maggio 2012

 

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