Totem: un postmoderno formato Ikea

Totem (photo: Mariano Fanini)
Totem (photo: Mariano Fanini)
Totem (photo: Mariano Fanini)
Simbolo di “Totem” è un crocifisso che, all’inizio dello spettacolo, campeggia sul fondo della scena e si pone come una sorta di suo contraltare muto.

Rispetto al disordine del teatrino familiare in basso, questo Cristo addormentato, né ferito né sanguinante, riesce pur ad acquisire una certa grazia; ma la scritta Ikea, che sul legno sostituisce quella di INRI, invita a non confonderci: non si tratta che di un Cristo dozzinale, da grande magazzino, che non ha nulla di dolente o di sacro.

Quando si ridesterà dal suo sonno ed entrerà in scena, andando a confondersi con la miseria della famiglia, dimostrerà inevitabilmente come anche la sua grazia immobile sia illusoria. Nessun miracolo dunque per lui, nessuna moltiplicazione dei pani e dei pesci, tutto il contrario: perché nel momento in cui vedrà una cernia e una pagnotta, questo povero Cristo penserà bene di farcisi un panino, che mangerà probabilmente fuori dal palco, subito dopo aver indossato davanti a noi l’immancabile giacca di pelle che, pur se passata un po’ di moda, resta sempre facile e inconfondibile simbolo del nostro contemporaneo.

Tolto il fardello del crocifisso dalla stanza, la famiglia avrà poi tutto l’agio di perdersi nel suo dramma, che si muove sulla falsariga semplificata e un po’ distorta di alcune tesi freudiane, fra cui su tutte, un po’ modificato ma non irriconoscibile, il complesso di Edipo e le sue dinamiche: lo scopo (o la condanna) è dunque quello di uccidere il padre (il padre in carne e ossa e il Totem alle sue spalle: la tradizione insomma) e andare a letto con la propria madre.

Ma per questo spettacolo del 2006, presentato dal 16 al 19 febbraio al Nuovo Teatro Colosseo di Roma dalla compagnia OlivieriRavelli_Teatro, con la regia di Claudio Di Loreto e la drammaturgia di Fabio Massimo Franceschelli, non vorremmo proprio adagiarci in un elementare resoconto del récit; perché troppe questioni questa messinscena lascia aperte.

Innanzitutto il dramma viene presentato come un incubo postmoderno (chissà poi, sia detto per inciso, quando riusciremo veramente a liberarci di questo incubo del postmoderno), categoria in sede critica invero oramai piuttosto superata, ma da cui gli artisti sembrano ancora riuscire a trarre non poca ispirazione.
L’unico rischio è che questo gioco, che si vorrebbe nuovo, non si riveli alla fine un poco vecchio; del resto non è certo Lyotard a venire chiamato in causa in queste riscritture disinvolte, quanto semmai un concetto di postmoderno formato Ikea, se vogliamo, per cui per postmoderno si intende forse la licenza di mischiare un poco tutto e di buttarlo in allegra e simpatica bagarre.

Di ogni grande autore è come se venisse colta una sorta di essenza liofilizzata, maneggiabile e a buon mercato, che i citati siano, come in questo caso, Freud, Frazer o Beckett poco cambia; gli stilemi di ciò che si vuole definire come un testo della “nuova drammaturgia” sono sempre gli stessi e non hanno nulla di nuovo, a ben vedere.

Un dubbio sorge di fronte a questo tipo di riscritture: ma con questa storia del postmoderno cosa ci abbiamo guadagnato veramente? Davvero ci vogliamo abituare a questi Cristi in stile vintage e a queste Pietà piene di malagrazia che, al posto del bambino in braccio, hanno un fantoccio, e ci accolgono con maschera d’argilla, bigodini e un improbabile vestito da sera?
Sono figure che sembrano più grottesche che eretiche, e le abbiamo già viste troppe volte; sarebbe bello, se questo è l’intento, si avesse il coraggio di bestemmiare veramente, altrimenti queste farse rischiano di essere moralistiche e concilianti, presentandoci invece che un eretico ben cotto, un eretico fritto e rifritto.   
Anche lo stile drammaturgico di “Totem” lo conosciamo bene, perché è improntato sul modello televisivo, e tende ad intervallare una trama simbolica volutamente contorta (e tuttavia trasparente) scandita da citazioni pseudo colte con battute volgari e parolacce, che mai mancano del resto il loro effetto, e permettono il dilagare di una scoppientante risata catartica.

Sono alte le pretese intellettuali del testo di Franceschelli, e si sarebbe forse dovuto metterlo in scena con maggiore accuratezza, lavorando ad esempio di più sulla recitazione degli attori. Ma lo stesso testo, per le istanze che lo muovono, avrebbe dovuto essere più curato o forse, ancora meglio, adeguarsi ad una leggerezza che più gli compete, buttando – senza resistenze intellettualizzanti – tutto in farsa.
A quel punto allora sarebbero stati benvenuti i polli squartati in scena, la birra buttata sul pubblico della prima fila, la puzza di pesce e i croccantini del gatto tutti per terra.

TOTEM
drammaturgia: Fabio M. Franceschelli
regia: Claudio Di Loreto
interpretazione: Claudio Di Loreto, Silvio Ambrogioni, Angelo Rinna, Diego Cortes, Claudia Matera, Marco Fumarola
assistente alla regia: Francesca Guercio
foto di scena: Mariano Fanini
scene e costumi: OlivieriRavelli_Teatro
una produzione Ass. Cult. Figli di Hamm
in collaborazione con Ass. Cult. amnesiA vivacE e CONSORZIO UBUSETTETE
durata: 50′
applausi: 30″

Visto a Roma, Colosseo Nuovo Teatro, il 16 febbraio 2012


 

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  1. says: Daniele T.

    inviterei a completare l’approfondimento di questi discorsi sui commenti alla recensione a seguito del pezzo di Lo Gatto su Teaytro e critica…

  2. says: Fabio M. Franceschelli

    Questa recensione (se pur molto critica) mi piace, è stimolante, dice cose giuste in generale… forse meno giuste nel particolare di Totem… forse. Comunque ecco le mie due o tre precisazioni:

    Punto primo: scrivi «gli stilemi di ciò che si vuole definire come un testo della “nuova drammaturgia” sono sempre gli stessi». Se c’è qualcuno che definisce i miei testi come “nuova drammaturgia” quello non sono certo io. Nuova in che senso? Poi io di nuovo ormai non ho più nulla da molti anni. È più un problema di voi critici liberarsi di queste categorie prive di reale significato. Non è giusto far scontare a noi autori una etichetta che qualcuno – non so chi – ci ha appiccicato addosso contro la nostra volontà. Per quanto mi riguarda, un testo può essere bello anche se scimmiotta Beckett, anche se è “vecchia drammaturgia”.

    Punto secondo: scrivi «Sono alte le pretese intellettuali del testo di Franceschelli». Ma quali pretese? Totem è il testo più scarno e veloce che ho mai scritto. Lo si legge in un quarto d’ora. Ci sono solo battute secche e veloci, la descrizione dialogica di un’azione da fare che alla fine fallisce. Tutto qua. Che poi in quell’azione si possa intravedere l’edipo freudiano… è un problema che lascio volentieri a chi interpreta il testo. Non è l’autore che deve dare indicazioni in tal senso. Il linguaggio è televisivo? Sì, è vero, l’ho fatto televisivo (da B-movie americano) appositamente… tieni conto che l’ho scritto nel 2000 e all’epoca quel tipo di linguaggio aveva il suo fascino.

    Tutto il resto è “roba” di regia e non metto bocca. Claudio Di Loreto risponderà se ne ha voglia. Posso solo dire, conoscendo Claudio, che ciò che lui cercava era proprio il grottesco e l’ironico (come sempre in OlivieriRavelli), e anche il sottotitolo “postmoderno” è chiaramente ironico… tutta la rappresentazione è una consapevole presa per il c… del “postmoderno”.

    Comunque grazie per la tua recensione che pur se critica la trovo molto meditata e ben centrata. Buon lavoro