Il trentennale di Scenario fra la disillusione delle nuove generazioni

Non avremmo voluto essere nei panni dei giurati (Marco Baliani, Edoardo Donatini, Lisa Gilardino, Cristina Valenti, Stefano Cipiciani e Paquale Vita) che al Festival di Santarcangelo, nei giorni scorsi, hanno dovuto districarsi nell’assegnare i premi dell’edizione del trentennale del Premio Scenario, che ha visto per la prima volta unire le selezioni per il premio dedicato ai nuovi linguaggi, quello all’impegno civile (Premio per Ustica) e al teatro per l’infanzia (Scenario Infanzia).

Ci saremmo infatti trovati davanti a 15 progetti (cinque per il teatro ragazzi, tre per l’impegno civile, intitolato alle vittime della strage di Ustica, e sette ai nuovi linguaggi) di assoluto valore, difficilmente valutabili per meriti maggiori o minori.
E infatti, a differenza della oggettiva modesta qualità artistica dell’edizione precedente, quest’anno il premio, il più importante in Italia in questo ambito, sorretto dall’adesione di 31 soggetti teatrali della nostra nazione, è stato contrassegnato da molte menzioni e da un ex equo.
A questa edizione si sono candidati 137 progetti (70 provenienti dal Nord, 49 dal Centro e 18 dal Sud e dalle isole) che, dopo essere stati valutati da otto commissioni distribuite sul territorio nazionale, sono stati ammessi in numero di 48 alle tappe di selezione di Udine e Napoli, dalle quali sono emersi i 15 finalisti.

Importante per noi è essere stati presenti come spettatori privilegiati per osservare da vicino alcune delle principali linee narrative, formali e progettuali, verso le quali si muove il giovane teatro emergente italiano.
In questo senso dunque un’edizione che ci porta ad osservare modalità ed argomenti in qualche modo ricorrenti nei progetti di venti minuti osservati, che ne caratterizzano linguaggi e prospettive.

Ecco dunque la danza irrompere felicemente, concatenandosi con altri linguaggi, in ben due delle creazioni premiate; e l’ironia grottesca contraddistinguere molti dei progetti presentati, un’ironia che corrode le istituzioni e i modi in cui la nostra società si compone; e ancora i temi dell’identità sessuale, della mancanza del lavoro e della migranza a porre lo spettatore, una volta di più, davanti a problematiche che urgono e dividono il rispettivo sentire; la presentazione frontale del corpo e della voce “battente” che si confronta orizzontalmente davanti al pubblico, mutuate dallo stile di Babilonia Teatri e una drammaturgia cattiva ed irriverente che in qualche modo si rifà a Carrozzeria Orfeo.

Iniziamo dalle creazioni che ci hanno più colpito, quelle dedicate all’infanzia: due su tutte, non a caso premiate e segnalate dalla giuria.
“Da dove guardi il mondo?” di Valentina Dal Mas, che avevamo da poco ammirato ne “La morte e la fanciulla”, creazione coreografica di assoluta bellezza di Abbondanza/Bertoni, si pone in scena utilizzando il suo corpo in movimento in relazione con la parola, impersonando in modo credibilissimo una bambina di nove anni disgrafica, che supera le sue difficoltà di scrittura mettendosi in relazione con quattro amici veramente particolari.

I napoletani de Il Teatro nel Baule utilizzano invece il teatro di figura in un progetto di Luca di Tommaso con al centro la Morte, una ‘morticina’ che si muove, occhieggiando al cinema muto, alla ricerca di qualcosa che le resista, perché dovunque lei corra tutto muore.

Per il teatro di impegno civile lo spettacolo che più ci ha intrigato è stato “FaustBuch” di Enrico Casale, in scena con tre attori diversamente abili. Rileggendo il Dottor Faust di Marlowe in modo ironico e spiazzante, lo spettacolo ha come protagonista un uomo senza talento che scommette ogni cosa per cercare lavoro.
Dio è una voce che proviene da una vecchia radio, mentre il diavolo, vestito solamente con una tuta rossa, gli promette un lavoro sicuro in cambio di qualcosa di inenarrabile.

Ma i vincitori di questa sezione del premio sono stati il composito ed eterogeneo gruppo Shebbab Met Project, composto da italiani e da migranti, che nel progetto “Veryferici” pongono in scena tutta la vitalità musicale, coreografica e verbale di uomini e donne alla ricerca di un modo più sicuro di vita.

Arriviamo così ai finalisti dello Scenario dedicati ai nuovi linguaggi.
Assolutamente diversi nel loro modo di proporsi, sono stati due i vincitori, che dovranno quindi dividersi gli ottomila euro del premio: Barbara Berti con “Bau#2” e The Baby Walk con “Un eschimese in Amazzonia”.

“Bau#2” possiede il significativo sottotitolo di “coreografia del pensare”, e ha rappresentato senza dubbio l’azzardo teatrale più ardito tra le 15 proposte viste quest’anno. Una creazione originale, giustamente premiata, per una performance coreografica pensata in continua relazione con il pubblico, nella quale in modo ironico e in tempo reale la performer attiva il suo subconscio collegando corpo e mente in un continuum di gesti e parole, stimolando nel contempo tutti i sensi dello spettatore, che anche al buio avverte la presenza del suo corpo in scena.

Ormai non più una promessa ma una certezza nel panorama del teatro italiano, quest’anno tra l’altro presente anche a Venezia alla Biennale Teatro, è l’altra compagnia vincitrice del Premio Scenario, The Baby Walk, in cui Liv Ferracchiati (che già avevamo conosciuto per “Peter pan guarda sotto le gonne”), in “Un eschimese in Amazzonia” torna al suo più urgente e personale stimolo progettuale per trattare il tema dell’identità sessuale. Lo fa in modo corale, avendo come contraltare un coro di quattro performer: Giacomo Marettelli Priorelli, Greta Cappelletti, Laura Dondi e Alice Raffaelli.
Attraverso domande provocatorie, assiomi contraddittori e riferimenti iconografici i protagonisti mettono in discussione scelte sessuali molto personali, in questo caso il percorso “Female to male” , che dovrebbe essere libero e possibile in ogni essere umano, ma che il sentire comune e la società compromettono, ostacolano e falsificano continuamente.

Abbiamo trovato molto divertenti e professionalmente maturi i torinesi de Il Mulino di Amleto, che qui – frontalmente e in modo dissacrante – mettono in scena uno spumeggiante testo di Magdalena Barile, “Senza famiglia”, distruggendo una delle istituzioni più consolidate della nostra società.
In questo caso non siamo più davanti ad una promessa ma ad una certezza nel panorama del teatro emergente italiano, un gruppo che si è già misurato in modo eccellente sia nel teatro ragazzi sia nella rivisitazione dei classici.

Terminiamo con altri due progetti dalla drammaturgia interessante e dissacratoria.
In “Intimità” di Amor Vacui tre attori (Andrea Bellacicco, Andrea Tonin ed Eleonora Panizzo), con il loro corpo seminudo, si pongono – di nuovo frontalmente – in un dialogo serrato tra di loro, che finisce per essere un monologo, stanco e ripetitivo, in cui parlano delle proprie esperienze sentimentali, che nel significativo finale si tingono ancora più di una disillusa amarezza; tanto che ci hanno ricordato, nel gioco crudele delle coppie, il mozartiano “Così fan tutte”.

“Posso lasciare il mio spazzolino da te?” di Massimo Odierna vede invece, attraverso un confronto verbale serrato e spesso grottesco, protagonisti tre “sfigati”, due uomini e una donna, che insieme si propongono di rubare il modesto patrimonio di un povero vecchio, da lei accudito; una metafora, anche qui, della mancanza di illusioni che sembra stia caratterizzando tutta una generazione.
La disillusione è stata infatti una delle tematiche più ricorrenti nel repertorio di questo teatro emergente italiano. Certo una prospettiva su cui riflettere.

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