Carmen, fra narrazione e canzone, non vede l’ora

Tamara Bartolini e Michele Baronio
Tamara Bartolini e Michele Baronio
Tamara Bartolini e Michele Baronio in Carmen (photo: Mat)
Facciamo che stasera incontriamo Carmen.
Facciamo che oggi, sedendoci sulla nostra poltrona, non ricordiamo neanche più bene cosa sia il teatro, e quanti nomi si possano dare alle sue estetiche.
Facciamo che la platea è soltanto l’appendice a scalini di un salotto, e facciamo che Tamara Bartolini e Michele Baronio non sono in scena niente più di sé stessi.
Una coppia che non nasconde l’affetto e la cifra biografica, e anzi ci gioca, li usa come solletico drammaturgico; una coppia che ha incontrato prima di noi, e vuole adesso condividere, la vita di una “Carmen che non vede l’ora”.

Sono semplici i presupposti del lavoro che da anni Bartolini porta avanti con i suoi progetti ispirati ai temi del ritratto o della caduta: scoperta dell’altro, curiosa spigolatura di vicende storiche e quotidiane, indagine politica ma sempre vicina alla dimensione intima della confessione, del racconto amicale.

Il materiale ottenuto in forma d’intervista (sonora ma anche visiva, nella forma appunto del ritratto) viene poi elaborato attraverso il medium scenico, il cui obiettivo non è tanto la compiutezza o la rappresentazione stretta delle vite pescate dal magma del contemporaneo, quanto quello di raccoglierci tutti in un unico indirizzo d’ascolto, di disponibilità.

Ecco perché Bartolini e Baronio non possono fare a meno d’interpretare il loro testo con la postura semplice e difficilissima della familiarità.

Seduti su un divano al centro del palco, circondati da lampadine come lucciole sospese, la foto di Carmen spunta – nel più classico degli esordi – da un album di ricordi. La sua vita, raccontata soprattutto dalla voce e dal corpo di Bartolini («Facciamo che io sono Carmen?», è la formula magica con cui i bambini mettono in gioco le proprie identità, e che qui dà l’abbrivio alle traiettorie del racconto) e dal controcanto di Baronio, è un vero e proprio spaccato del secondo Novecento.

Di origini slave, ribelle (e compiaciuta di esserlo), Carmen si trova a crescere nella realtà meridionale, di cui conosce sia la formicolante generosità sia la più gretta ipocrisia.
Si trova stretta nelle maglie di un matrimonio di comodo deciso dalla «mater familias», nonna Carmela. Ma si guadagna spazi di libertà grazie alla passione politica, che viene raccontata attraverso quei paradossi vivi, veri e capaci di raccontare un’intera società in un attimo, e che accadono spesso nell’incredibilità delle vite comuni: come quando Carmen sciopera assieme agli operai davanti alla fabbrica del marito, mentre tutti l’additano come moglie del padrone; o come quando con furbizia «socialista» riesce ad ottenere il trasferimento a Roma, finalmente lontana dal marito e dalla società padronale del Sud.

Ma fanno sorridere e riflettere anche i riferimenti agli assurdi burocratici nei primi anni della legge sul divorzio, che costringono il figlio di Carmen a portare, per quattro anni, metà del cognome di sua madre e metà del cognome di un padre soltanto legale. O la scoperta della vecchiaia, con un’epifania indotta da chi non t’aspetteresti proprio, cioè un autista dell’Atac. Nella vita di Carmen c’è il dramma, ma c’è anche tanta intensità vitale, che si addensa nelle ellissi e nel non detto oltre che nel racconto esplicito.

Quello di Bartolini e Baronio è una sorta di teatro di narrazione, meno corale e più lirico, più aggrappato a biografie singole ma non meno schierato politicamente rispetto alla linea Baliani-Paolini-Celestini. Più attento, soprattutto, a costruire nei gesti e nei segni scenici la dimensione affettiva del dono, fosse anche il dono banale di una serata piacevole, emozionata. Un po’ come accadeva nel lavoro che qualche anno fa Erri De Luca e Gianmaria Testa dedicarono a “Chischiotte e gli invincibili”: la dimensione dell’happening musicale e teatrale s’intreccia a quella dell’invito a conoscere, conoscersi, approfondire.

Tutto ciò, nella concretezza scenica, porta con sé uno stile recitativo sciolto e colloquiale, ma proprio per questo impegnativo, perché ogni cambio di registro, se non centellinato con cautela, corre il rischio dell’affettazione.

A parte un attacco fin troppo situazionale, e un calcato approccio parodico che nella prima parte rallenta l’ingresso di Bartolini nel personaggio di Carmen, la drammaturgia è sempre snella e godibile, appoggiandosi sia su un uso poliedrico delle citazioni (perfino il vecchio buon Pascoli) sia su alcune trovate particolarmente efficaci. Come quando Baronio proietta alcune foto sulla pancia di Bartolini: a ricordarci che il corpo e il racconto sono un unico ente. O come quando avviene una cosa che finora non mi era mai capitato di vedere in scena, ovvero la carpenteria in diretta: mentre la narrazione procede su piani paralleli, Baronio si mette a montare delle assi sul palco, con tanto di giraviti elettrico, fino a costruire un artefatto di legno, una sorta di pedana con dei giradischi che fanno a loro volta da base a piccoli oggetti, stecchi e sagome, che saranno proiettati sul fondo nella bella immagine del finale, con le loro ombre a vorticare come in un giro di valzer.   

«Il corpo dà e distrugge, ma la bellezza sta da un’altra parte». Questa è la lezione di Carmen, e non sappiamo se leggerla con amarezza o con speranza. Verso l’«altra parte», però, verso quell’altrove in cui la bellezza di tante biografie si diverte a nascondersi, il teatro può puntare un dito. Suggerire un passo per avvicinarsi.  

CARMEN CHE NON VEDE L’ORA
drammaturgia: Tamara Bartolini
sonorizzazioni, canzoni, musiche originali: Michele Baronio
canzoni originali: Lucilla Galeazzi
suono: Michele Boreggi
regia: Tamara Bartolini, Michele Baronio
co-produzione | Residenza Carozzerie | n.o.t
co-produzione: Sycamore T Company
produzione: Bartolini/Baronio
produzione prima fase del progetto in forma di Recital: Associazione Cantalavita/Lucilla Galeazzi

durata: 1h 20′
applausi del pubblico: 1′ 40”

Visto a Roma, Teatro Argot, il 25 ottobre 2013


 

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