“Extravagare” al carcere di Opera: il mito che spezza le sbarre

Extravagare. Riruale di reincanto (photo © Pietro Masturzo)
Extravagare. Riruale di reincanto (photo © Pietro Masturzo)

Opera Liquida apre i cancelli del penitenziario milanese con uno spettacolo su Dea Madre e Tauromachia diretto da Ivana Trettel

Uno spettacolo “necessario”: quante volte ci siamo imbattuti in quest’espressione trita e spesso retorica.
Le parole trovano la loro giusta collocazione quando assistiamo a uno spettacolo in carcere: è proprio tra le mura di una casa circondariale che il teatro diventa “necessario”, cioè un’occasione per delineare nuove prospettive e riscattarsi.
Milano Opera è un carcere di altissima sicurezza. Inaugurato nel 1987, conta in Italia il maggior numero di detenuti sottoposti a carcere duro. Vi sono stati reclusi boss come Totò Riina, Nitto Santapaola e Francesco Schiavone.
A Opera agisce da 15 anni una compagnia teatrale diretta da Ivana Trettel. Si chiama Opera Liquida. Ne fanno parte anche ex detenuti: è il senso di un’appartenenza; è il tributo di riconoscenza di chi ha trovato un ruolo nella società anche grazie alla scena.

“Extravagare. Rituale di reincanto” è l’ultimo spettacolo realizzato da Ivana Trettel con Alex Sanchez. La pièce è «un controcanto per la pace»: un invito a pensare prima di agire; un monito a superare l’istinto per abbracciare una prospettiva d’accudimento, che qui è declinata al femminile.
“Extravagare” è uno spettacolo colto. Parte dalle ricerche di Marija Gimbutas (1921-1994) archeologa e linguista nata in Lituania. Tra riti e poesia, si dipanano suggestioni che riconducono agli albori dell’umanità, alle prime civiltà indoeuropee attorno al Mediterraneo, a culture matriarcali basate sulla convivenza pacifica e sul rispetto per la natura. Tutto il lavoro è pervaso da una religiosità ancestrale, improntata ai riti della fertilità e della tauromachia.
«L’innocenza è la più limpida delle fonti. Sboccia nei fiori notturni, si cela nei tesori invisibili, si rifugia nell’ignoto, si innamora degli enigmi, gorgoglia fra tronchi ripieni di licheni, riposa sulle cime dei monti marini, germoglia nella curiosità».
Al centro della scena, troviamo la Dea Madre con la sua energia vitale, interpretata da una generosa Eleonora Cicconi, attrice professionista di scuola Filodrammatici. Con lei, Michel Alvarez, Alessandro Arisio, Alessandro Bazzana, Sohaib Bouimadaghen, Carlo Bussetti, Alfonso Carlino, Vittorio Mantovani, Papa Mor Tham, Nicolae Stoleru. La cura del progetto è di Nicoletta Prevost.
A puntellare le scenografie di Marina Conti e della stessa Trettel, vari simboli taurini, allegorie dell’organo riproduttivo femminile: il muso è l’utero; le corna sono le ovaie.
Non mancano richiami marini e astrali, sempre associati al culto della Grande Dea. Il toro si associa a una simbologia androgina. La tauromachia, con il sacrificio rituale dell’animale, indica il crocevia tra sacra femminilità e società patriarcale.

I simboli della Dea Madre si trovano anche nei costumi dei personaggi in scena, firmati dal designer d’alta moda Salvatore Vignola e realizzati dai detenuti costumisti diretti da Tommaso Massone. Sono abiti larghi e lunghe tonache chiare con sagome curvilinee, zig-zag, reticolati, quadrati con diagonali e triangoli, tutti simboli di fertilità riconducibili al mito.
In scena ogni gesto è solenne e dipinge una fiaba arcaica, risvegliata da luci che sembrano catapultarci su altro pianeta. L’allestimento tecnico è curato da Silvia Laureti e Mario Pinelli, con i detenuti esperti audio e luci, e trasforma la sala teatrale in una sorta di tempio orientale.
Una musica delicata scioglie il rigore delle figure in scena: statue pronte ad animarsi, sghiacciandosi dal torpore di una storia plurimillenaria.

Eleonora Cicconi si muove con la maestosità di una sacerdotessa. Il suo linguaggio di gesti puliti, essenziali, solenni, contamina i personaggi in scena, avviando una performance corale di parole centellinate, espresse con la gravità di una preghiera.
La drammaturgia contempla vari accenti esotici. Sono i mille colori di un’umanità alla deriva, in cerca del primo approdo. Cogliamo la filigrana di questo luogo di clausura, dove la multietnicità diventa spazio aperto di condivisione, e comunità di uguali.
Mario Barzaghi (Teatro dell’Albero), danzatore esperto di Kathakali e Orissi, crea coreografie geometriche con le mudra, rituale orientale plurimillenario di gesti con le mani, finalizzato all’equilibrio tra mente, corpo e spirito. La polifonia dei gesti rigorosi finisce per attivare un principio ordinatore in queste vite disordinate, assembrate dall’unisono della voce.
Melodia, coreografia e mudra tessono trame fra Tauromachia e Dea Madre, con sequenze ispirate alla corrida, posture da banderillero e da torero, e la reazione del toro incornato. Ci sono rimandi a Peter Brook (“Incontri con uomini straordinari” tratto da Gurdjieff) e un linguaggio arcano, poetico, fatto di formule esoteriche e cerimoniali iniziatici. Nello scarto tra lo stile impeccabile degli attori professionisti e l’essenzialità di questi interpreti non accademici, vive l’autenticità e la necessità di questo spettacolo, di forte impatto scenico e di grande comunione umana.
Nucleo portante della scenografia è l’installazione ispirata al “grande oggetto pneumatico”, opera firmata a Milano nel 1959 dal Gruppo T, e qui realizzata in collaborazione con l’artista cinetico Giovanni Anceschi. Il brano “Strange days” di Brian Storm, prodotto all’interno del carcere, agita tale marchingegno che, come un gigantesco pitone, tracima sulla platea.

Shock. Paradossi. E un linguaggio così profondo da risultare a tratti ermetico. Il senso di questo rito sta anche nel proporre un’alternativa all’impoverimento lessicale: quello che impedisce a chi ne è vittima di esprimere nei dettagli la propria essenza e identità. Proprio la frustrazione che ne deriva è il viatico all’aggressività. La povertà della comunicazione porta infatti a soffocare le emozioni. La difficoltà di nominare sentimenti come tristezza, paura o rabbia impedisce lo sfogo al dolore. Ne consegue la violenza come anticamera del reato. Ecco perché, in questo spettacolo, il linguaggio ricco e sofisticato ha una valenza catartica e terapeutica.

Una cosa che ci ha colpito non appena si sono spente le luci, sono stati gli schiamazzi dei detenuti in platea. Succede la stessa cosa con alcune scolaresche al cinema. Ma allora le nostre scuole assomigliano a delle prigioni? O forse è il sentirci oggetto di vigilanza che ci rende immaturi? Gherardo Colombo osserva che la scuola italiana non educa alla libertà ma all’obbedienza. Ogni sistema coercitivo genera istinti belluini, che liberiamo con la complicità del buio.

Tuttavia il rito del teatro è più forte di ogni impulso iconoclasta. Quando le luci di “Extravagare” si riaccendono, anche il più scettico degli spettatori resta folgorato. In quel preciso momento, inizia la danza delle emozioni, con il climax della standing ovation finale tributata dal pubblico.

Il carcere di Opera, interamente maschile, non è un modello di successo, ma neppure un esempio fallimentare. La condizione dei detenuti è più umana rispetto al vicino San Vittore, le cui celle ospitano fino a nove persone, con gabinetti alla turca e un senso d’asfissia insopportabile.
Opera contempla aree per l’incontro con i bambini riempite di disegni colorati appesi alle pareti. Ci sono piccole ludoteche e spazi all’aperto, con un po’ di verde e delle panchine.
Nondimeno, Opera resta un luogo di sofferenza. L’associazione Antigone ne evidenzia il sovraffollamento, con 1311 reclusi a fronte di una capienza attuale di 907 posti. Camere singole trasformate in doppie, e la muffa in parte delle docce.
I poliziotti penitenziari sono 551, uno ogni 2,3 detenuti (la media nazionale è 1,7). Gli educatori sono solo 18, uno ogni 73 persone. Nulla sappiamo della condizione degli oltre 100 detenuti in regime di 41 bis: il loro reparto è precluso alle ispezioni della stessa Antigone, oltre che a politici e avvocati.
Lo scorso anno a Opera si sono verificati 63 casi di protesta. Sono scoppiati due incendi. Nei primi cinque mesi del ‘22, si sono registrati cinque tentativi di suicidio con due morti. I dati sul totale della popolazione carceraria italiana (56.700 persone) parlano di 85 suicidi solo lo scorso anno. È un tasso preoccupante, in forte aumento rispetto al 2021, e 22 volte superiore a quello della popolazione generale.

A Opera sono molte le iniziative rieducative, dai laboratori di giornalismo e fotografia al cineforum, dalla scrittura creativa, alla floricoltura, dalla musicoterapia ai corsi di canto, chitarra e disegno. Ma la percentuale di partecipanti sul totale dei detenuti resta troppo bassa. Intanto hanno chiuso i laboratori di gelateria, lavorazione e restauro del marmo.

Il teatro in carcere è evasione, e non è solo una metafora. Entrare nei panni degli altri è un modo per sentirsi liberi. Un teatro è sempre un’enclave di franchigia, anche quando è circondato da robuste mura.
L’arte consente di sovvertire la realtà attraverso il potere dell’immaginazione. Non a caso il rischio di recidiva per chi esce dal carcere si abbassa di almeno dieci volte quando si ha all’attivo un laboratorio di teatro. Ma l’Italia resta indietro: la spesa giornaliera per la riabilitazione di ciascun detenuto si limita ad appena 30-35 centesimi.

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