Ipotesi di pace per Teatri di Vita. Intervista a Stefano Casi

Figli di Abramo (ph: Valentina Balestrazzi)
Figli di Abramo (ph: Valentina Balestrazzi)

“Il teatro deve essere uno spazio politico, non uno spazio di quiete”

La rassegna “Ipotesi di pace” apre la stagione primaveril-estiva di Teatri di Vita a Bologna con una serie variegata di appuntamenti di teatro, danza, cinema, residenze artistiche, stand-up comedy ed eventi ibridi che incrociano performatività, socialità e solidarietà.
La Festa di Primavera del 1° maggio, ad esempio, è stata un evento con “Microfono aperto” per chiunque volesse condividere riflessioni o performance legate ai temi di pace, solidarietà e lavoro, con lo spettacolo-lettura “Le Mat, Le Monde, La Paix”, con Innocenzo Capriuoli e Niccolò Collivignarelli. La giornata si è poi conclusa fra giochi e musica, uno schema che si ripeterà per la Festa della Repubblica del 2 giugno, per celebrare democrazia e libertà.
In ambito di cinema, una selezione di quattro pellicole propone un focus sui teatri di guerra più caldi ma anche sui conflitti quasi dimenticati: “Praying for Armageddon” di Tonje Hessen Schei, il documentario vincitore del Premio Oscar “20 Days in Mariupol” di Mstyslav Chernov, “The Lost Souls of Syria” di Garance Le Caisne e Stéphane Malterre, e “Theatre of Violence” di Emil Langballe e Lukasz Konopa.
Passando al teatro, ai due spettacoli dedicati a Gaza e alla questione palestinese, si aggiungono “Ridi, piangi, ti ecciti” di e con Alessio Genchi e Innocenzo Capriuoli, e “dEVOLUTION” di Teatro Zeta, che affronta la relazione servo-padrone.
E’ poi attivo il bando per la 3^ edizione del Premio La Cicala D’oro, dedicato alla memoria di Roberto Cimetta, rivolto ad artiste e artisti esordienti di stand-up comedy. Una competizione che andrà in scena nell’ambito del festival Cuor Leggero di agosto.

Nella bella sede di Teatri di Vita, circondata da un parco nella zona di Borgo Panigale, abbiamo incontrato il direttore artistico Stefano Casi.

Al centro della vostra programmazione per la primavera-estate avete messo il tema della pace. Quali criteri avete usato per costruire il cartellone?
Spezziamo da sempre le nostre stagioni in blocchi tematici, proprio per essere certi di riuscire a cogliere tempestivamente le istanze più urgenti dell’attualità. Non si tratta di instant theater, ma di scegliere un tema da utilizzare come lente interpretativa e filo conduttore che ricolleghi il contenuto degli spettacoli a tutto ciò che ad esso può girare intorno. Come se il titolo del blocco progettuale rendesse visibili tutti i possibili collegamenti. In questo momento la pace ci sembra che sia il tema più pressante. Se nella nostra proposta di film affrontiamo vari contesti di guerra, in ambito teatrale ci siamo concentrati sulla Palestina, perché è quella su cui in questo momento avviene la distorsione mediatica più alta.

Sono appena andati in scena, infatti, “Figli di Abramo” e “Gaza ora. Messages from a dear friend”…
“Figli di Abramo” di Teatro del Loto precede l’ultima crisi di Gaza e non parla di guerra ma di intrecci inaspettati tra culture, che possono essere quindi perfette basi per ipotesi di pace. “Gaza ora” invece è la lettura del diario di Hossam al-Madhoun, autore e regista teatrale di Gaza che scrive giorno per giorno quel che vede. Un progetto della compagnia inglese Az Theatre, già andato in scena a Londra e tradotto in italiano, che porta lo sguardo da dentro Gaza, cioè proprio quello che nella narrazione mediatica ora manca.
In questo modo “Ipotesi di pace”, come tutte le altre nostre rassegne, si costruisce per spunti, per tentativi di lanciare riflessioni, anche in maniera molto forte, schierata, perché il teatro deve essere uno spazio politico, non uno spazio di quiete: un luogo in cui ci si sente colpiti.

A dx Hossam al Madhoun
A dx Hossam al Madhoun

Questo approccio però può crearvi anche problemi. Qualche giorno fa una testata ha rifiutato di pubblicare il materiale della rassegna dicendo: “Non ci occupiamo di politica”.
Sì, è stato un po’ strano. Capita che testate non recepiscano. Ma in questo caso, esplicitamente ci hanno tenuto a dire “non ci interessa, non ci occupiamo di politica, non mandateci più comunicati”.

Il tema di Gaza è certo molto caldo.
Noi sulla Palestina siamo sempre stati molto diretti. Al centro ci sono i diritti umani e il diritto internazionale, che vengono calpestati. Questo lo dice l’Onu, Amnesty International… Abbiamo fatto un festival intero dedicato alla Palestina. Quando possiamo proporre cose di qualità sul tema lo facciamo. Come per tante altre questioni legate ai diritti, al genere, all’orientamento sessuale…

Queste sollecitazioni a che tipo di pubblico arrivano? Recentemente, un’immagine diventata virale ha mostrato il contrasto tra un contestatore bianco americano e un lavoratore afroamericano dei college durante le proteste pro-Palestina. Questo richiama le riflessioni di Pasolini sui figli della borghesia, e solleva la questione sul rischio di limitarsi a parlare solo a nicchie omogenee di persone, per classe e background culturale, senza coinvolgere veramente l’intera società. Qual è il pubblico di Teatri di Vita in questo senso?
Il teatro è inevitabilmente di nicchia, soprattutto in una società e in una cultura come quelle attuali. Sarebbe un errore cercare di parlare a tutti, perché non è il canale giusto. Il teatro richiede la presenza fisica, la condivisione in quel momento tra persone che, anche nei teatri più grandi, sono comunque sempre “poche” rispetto a 5 minuti su You Tube che ottengono milioni di visualizzazioni.
Si tratta allora di capire come confrontarsi con questa nicchia. Teatri di Vita si muove su due piani diversi: da un lato la fidelizzazione di una comunità da allargare via via, saldata da una passione per il bello, da grande curiosità e dal volersi mettere in gioco a ogni nostra sollecitazione. Come quando sono stati messi di fronte [qualche giorno fa, ndr] alle letture da Gaza: gli spettatori possono sorprendersi di fronte a qualcosa che non trovano altrove e recepiscono come sollecitazione, qualsiasi sia il loro pensiero in merito.
Tramite progetti come la “Residenza dello Spettatore” abbiamo capito molto sulla nostra comunità: in particolare la voglia di tornare a casa portandosi qualcosa che rimane dentro e non ci si aspettava di trovare. Una comunità che poi testiamo con il famigerato abbonamento “blind”, in cui non si conoscono i titoli degli spettacoli: quindi non ci si abbona perché ci si identifica in un contenuto specifico, ma perché si sa che si otterrà comunque qualcosa da portare con sé.
L’altro piano è quello di cercare di mettere in corto circuito spettatori diversi e aspettative diverse. La stand up comedy va in quella direzione, ma a modo nostro. Senza perdere leggerezza e comicità, ma cercando di dare segnali di lettura.
D’estate, poi, molti sono attratti dall’idea di mangiare qualcosa nel parco e così si imbattono in una lettura o in un film.
Sempre in quest’ottica si muove l’inserimento di resiDANZE di Primavera, con artisti che lavorano sul territorio e quindi coinvolgono reti diverse di persone.

Quindi il pubblico che viene qui è diverso da quello che va nei teatri “storici” del centro di Bologna?
In parte sì. Alcuni sono appassionati di teatro, e quindi si muovono nella città e sul territorio per cercare quello che gli interessa. Altri invece hanno cominciato ad andare a teatro in maniera più continuativa qui, e questo è diventato il loro luogo.

Il contesto attuale è comunque quello di un isolamento progressivo degli individui, che partecipano alla socialità spesso dietro al filtro dei loro schermi. Secondo alcuni questo crea incapacità di sentire emozioni reali, una mancanza che porta poi a volerle mimare ed esasperare online, dando vita a fenomeni come quello degli hater o alla cosiddetta “società degli indignati”. Il teatro può avere un ruolo in questa necessaria “riabilitazione emotiva”?
Assolutamente sì. Il teatro è l’”anti-social” per eccellenza, perché è il luogo dell’incontro fisico in cui ci si rispecchia nell’altro, si ascolta e si comprende, si alimentano le relazioni.
Dall’altro lato, però, anche noi, come teatro, ci dobbiamo confrontare con il mondo dei social, che sono lo spazio di promozione e comunicazione maggiore in questo momento. Questo anche per attivare una relazione con pubblico nuovo. Ci interroghiamo quindi rispetto ai social come possibile luogo di intercettazione di spettatori da raggiungere senza snaturarci, ma cercando semplicemente di spiegare quello che proponiamo.

Spiegare cosa si propone in modo semplice va incontro a chi ha quasi paura di entrare a teatro perché non si sente “all’altezza”?
Su questo c’è un imprinting sbagliato: fin da bambini la parola “teatro” evoca il sipario rosso, attori noiosi che parlano tantissimo e prezzi dei biglietti molto alti… Come se non si avesse percezione di come si è sviluppato il teatro attualmente. E’ uno scoglio molto alto. Cerchiamo, attraverso i social, con video-inviti e trailer, di raggiungere queste persone.

Cos’è il teatro politico oggi? Nel 2012, nella prefazione del libro “Passione e Ideologia – Il Teatro (È) Politico” curato da te insieme a Elena Di Gioia, scrivevate: “C’è oggi il bisogno di rievocare e rinominare i due termini di questa espressione”. Dopo 12 anni, a questo bisogno si è data almeno parziale risposta?
Anche in seguito alla risposta di quella testata che dicevamo prima, che ha rifiutato il nostro materiale dicendo che “non fa politica”, è più che mai necessario ribadire che il teatro è politico comunque, che parli di politica o meno. Rispetto a 12 anni fa, è importante sottolineare che il teatro può essere uno spazio politico diverso rispetto ai social, dove vincono le aggressioni e gli slogan, dove si interagisce a suon di “like” e si creano bolle di schieramenti opposti. C’è molto bisogno quindi di pensare alla politica come a qualcosa di diverso, come a un luogo di confronto e ascolto. Il teatro è l’agorà politica per eccellenza: insegna allo spettatore ad ascoltare, a provare a riflettersi nell’altro, ascoltando i diversi punti di vista in scena, al di là del contenuto. Questo è un vero atteggiamento politico: non è obbligatorio schierarsi ma, come dicono i nostri spettatori, comunque ci si porta a casa qualcosa. Dopo 12 anni la questione è ancora più forte, proprio perché i maggiori mezzi di comunicazione oggi vanno nella direzione opposta.

Parlando di teatro italiano, e vista anche la vostra collocazione geografica, in uno spazio cittadino laterale inizialmente dedicato a tutt’altro – un ex acquedotto – e poi rigenerato, vi sentite più al centro o alla periferia del sistema?
La definizione di centro e periferia è molto relativa, quindi si è sempre periferia rispetto a qualcuno e centro per qualcun altro. Rispetto al teatro italiano credo che siamo stati in grado di esprimere una nostra identità. Per alcune cose siamo riconosciuti in maniera molto forte. Per altri versi c’è una difficoltà a etichettarci che ci caratterizza e non sempre ci favorisce. La nostra identità è quella di continuare a metterci in gioco, cambiare le modalità in cui ci esprimiamo, per non diventare le “Bestie da stile” che diceva Pasolini, qualcuno che hai incasellato e da cui sai sempre cosa aspettarti. Il nostro lavoro, in primis quello artistico del regista Andrea Adriatico, nostro fondatore e autore delle maggiori produzioni, è esattamente l’opposto. Nei lavori di Andrea riconosci una tensione di fondo che, dopo averne visti un po’, riesci a cogliere, ma sono sempre molto diversi tra loro, perché seguono l’obiettivo di continuare a rimettersi in gioco. Questo vale anche per le nostre programmazioni. Cerchiamo contemporaneamente di consolidare alcuni paletti e di rifuggire da un sistema di aspettative che porti le persone a sapere in partenza cosa succede se vieni qua. Credo che questo ci porti ad essere non fuori dal sistema, ma forse a venire percepiti un po’ come i “cugini bizzarri” della famiglia.
Il nome “Teatri”, del resto, è volutamente plurale, per rifiutare in qualche modo di essere riconoscibili, se non per la continua tensione nel voler interpretare il nostro tempo.

Progetti per il futuro. A cosa sta guardando Teatri di Vita per quello che verrà dopo la stagione estiva?
In parte non lo sappiamo, perché dipenderà dalle sollecitazioni che ci raggiungeranno in base a ciò che avviene. I contenuti della proposta vivono quasi giorno per giorno. Ci sono comunque dei percorsi avviati: quello della produzione artistica con il lavoro di Adriatico, ma anche con quello della giovane formazione di Alessio Genchi e Innocenzo Capriuoli, su cui stiamo puntando molto. Dal punto di vista della concezione complessiva del teatro stiamo cercando di mettere sempre più a punto un’idea di “teatro come casa”, a partire dall’osservazione della nostra comunità di spettatori, che ci porta a cercare di sviluppare il percorso basato su una zona grigia tra performatività e incontro sociale. Un lavoro che può proprio servire ad allargare questa comunità.

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