Da Noosfera a Titanic, Roberto Latini sui naufragi dell’essere umano. Videointervista

Roberto Latini in 'Iago'
Roberto Latini in 'Iago'
Roberto Latini in ‘Iago’ (photo: fortebraccioteatro.com)

Esistono alcuni chiari esempi di volontà sperimentale nel teatro italiano, che rimangono vivi e attivi pur nel difficile contesto produttivo e di circuitazione di questi ultimi anni. L’Italia, nonostante la lagnòla generale, ha contribuito negli ultimi trent’anni al rinnovamento del linguaggio scenico europeo in maniera determinante. Solo apparentemente alcune figure apicali e stridenti nelle loro diversità come Strehler, Bene, de Berardinis non hanno lasciato eredità. Senza di loro non sarebbe nata gran parte di quel movimento che tra fine anni Settanta e Ottanta ha portato al teatro d’immagine, agli studi sulla voce, al superamento stesso della forma registica tradizionale.   

C’è da dire, però, che la generazione dei quarantenni non è stata particolarmente generosa da questo punto di vista, più orientata ad altre forme di espressione artistica o a sfornare i primi “imprenditori” del teatro nostrano, la prima generazione, forse, a concepire con più determinazione la volontà manageriale del teatro, a dover fare i conti con i paradigmi culturali degli anni Ottanta, portando non di rado ad eccessi e carenze.

Il lungo preambolo vale a presentare la figura di Roberto Latini come un’eccezione, a suo modo, del suo contesto generazionale, facendone una delle personalità artistiche più significative della sperimentalità nazionale, con forse molti, legittimi e illegittimi padri, ma con pochi fratelli.

Formatosi con Perla Peragallo, e diplomato nel 1992 allo Studio di Recitazione e di Ricerca teatrale, sette anni dopo fonda quella che a tutt’oggi è la sua casa, ovvero Fortebraccio Teatro, residente presso il Teatro San Martino di Bologna.

Numerosi gli spettacoli da allora succedutisi, e intonati a emozioni diversissime, da “Strade_sei proposte per un nuovo millennio”, ispirato a “Lezioni americane” di Italo Calvino del 1999 a “La ballata del vecchio marinaio”, di St. Coleridge, del 2000, per poi avviare il continuo e dialettico rapporto con il classico shakespeariano e le sue riscritture, partendo da “Essere e non _ le apparizioni degli spettri in Shakespeare” del 2001 per arrivare alle figure di Iago, Desdemona e Otello, inframezzati dal rifrattivo Caligola del 2002, in cui l’attore recitava circondato da un emiciclo di specchi che restituivano allo spettatore in forma compiuta quel suo tentativo di cercare i molti nell’uno, la pluralità delle sfumature, un leit motiv che connota anche la ricerca su Otello, più orientata al lavoro sulla voce.

Un percorso continuato poi di recente con “Noosfera”, un contenitore di riflessioni declinato in una rilettura di Pinocchio in cui il burattino finiva, nella seconda sezione dello spettacolo, per vivere l’umido antro della balena in un rapporto quasi animale con l’acqua. Di qui al successivo “Titanic” dell’estate scorsa, e all’indagine sul naufragio dell’essere umano, il passo è stato relativamente breve.

Nel pieno della presentazione al pubblico del nuovo esito scenico, l’“Ubu roi”, di scena in questi giorni a Prato (e che Klp seguirà), torniamo su Latini proponendovi l’intervista realizzata l’estate scorsa a Santarcangelo, in occasione della presentazione di “Noosfera Titanic”, per indagare meglio la poetica dell’artista, per comprendere più profondamente i vettori della sua creatività, costruita, ineluttabilmente, attorno ad una presenza scenica importante, fatta di una voce dal timbro non comune e da una capacità comunicativa fisica di cui l’attore sa farsi tramite con grande naturalezza.
Ma questo Latini lo sa; ed il suo gioco, la sua ricerca, è proprio nel lanciare la sfida un passo oltre, a costo di sfiorare il periglioso limite del compiacersi, per arrivare a riscrivere se stesso, prima ancora che Shakespeare, i classici e il teatro.

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