Da Collettivo Cinetico a Rébecca Chaillon, incursione a Santarcangelo di Romagna

Manifesto Cannibale (pg: Piero Tauro)
Manifesto Cannibale (pg: Piero Tauro)

Le scelte del direttore Tomasz Kireńczuk: “Enough not enough non è un messaggio positivo da mandare al pubblico. Ma poi mi sono detto: se le cose stanno così, se la realtà è questa, non bisogna negare la verità”

Come sempre nel mese di luglio ci ritroviamo a Santarcangelo di Romagna con la curiosità di scoprire l’operato del “nuovo” direttore del festival. Per Tomasz Kireńczuk questa è la seconda annualità; sono dunque due anni che vive qui, nel fascino di questo borgo medievale, insieme alla moglie e al figlio di tre anni e mezzo.
L’esperienza della scorsa edizione, ormai sedimentata, ha certamente direzionato lo sguardo straniero del direttore, lasciandolo addentrare nei meandri della città con un orientamento diverso, più consapevole, coordinato, puntuale. Prepararsi a una seconda edizione è un compito arduo (un po’ meno del primo) a cui Tomasz adempie con grande senso di responsabilità verso la cittadina e i suoi residenti, verso l’operato dei direttori che l’hanno preceduto, verso gli artisti (dai nuovi ai più veterani) e verso i pubblici, reali e potenziali. Per lui comporre la programmazione di un festival non significa seguire una linea prestabilita, né tanto meno puntare a un obiettivo ideale, bensì muoversi liberamente tra i linguaggi e le forme estetiche, instaurando un dialogo diretto con gli artisti.
Chiaramente durante l’anno ha dovuto viaggiare parecchio in giro per l’Europa per visitare altri festival, coltivare i rapporti con gli operatori, scoprire nuovi nomi… Ma come sua prassi ha lasciato che fosse l’intuito, l’ascolto della propria sensibilità, a guidarlo nella scelta oculata della programmazione.

Il risultato è un ampio ventaglio di proposte e di approcci all’arte performativa: spettacoli, concerti, talk, djset, ma anche cene di solidarietà e un mercatino vintage, per un totale di 136 appuntamenti in 10 giorni. Come sempre a Santarcangelo gli eventi s’insinuano nella città con diverse modalità di fruizione: all’aperto o al chiuso, da soli o insieme alla platea, di giorno o di notte, in spazi tendenzialmente non convenzionali.
“È storicamente così per Santarcangelo – commenta – Una cittadina così piccola ospita uno dei festival più importanti a livello nazionale e internazionale pur non avendo nemmeno un teatro. La popolazione se lo aspetta, è abituata a vedere come verrà trasformata la città. C’è molta disponibilità. Ad esempio, quest’anno abbiamo allestito un palco in mezzo a un campo di grano, in una proprietà privata. Qui queste cose possono accadere ed è molto bello”.

La mappa dei luoghi toccati dagli spettacoli si rinnova anche per questioni logistiche impreviste: “Abbiamo dovuto affrontare un’alluvione e trovare un nuovo spazio per InBosco. La realtà di InBosco è molto significativa per il festival. È stata un’esperienza importante per me viverla dall’interno, parteciparvi. InBosco ci permette di raggiungere un pubblico più ampio. E questo ci dà anche la sicurezza di osare nella scelta della programmazione”.
La claim di quest’anno, volutamente ambigua, Enough not enough interroga l’oggi, la responsabilità civile e politica di ognuno di noi, a livello privato, personale, ma anche a livello pubblico, collettivo, istituzionale. Così i 27 spettacoli che hanno composto il cartellone di questa 53^ edizione incarnano appieno la funzione atavica d’interrogare lo sguardo dello spettatore, di metterlo davanti alle contraddizioni, alle fratture, ai punti di non ritorno, alle ferite aperte che scalfiscono il mondo in cui viviamo. Un teatro politico, dunque, che si misura con il nostro presente. “In certi spettacoli ciò si manifesta in maniera più palese che in altri, che magari sono nati da esigenze artistiche più personali. In questi casi l’intento può rimanere più occulto. È meno diretto”, ma mai effimero o fine a sé stesso.

Ad esempio, “Manifesto Cannibale” di Collettivo Cinetico, un progetto che è stato fortemente influenzato dall’esigenza di Francesca Pennini di sublimare i mesi vissuti immobilizzata a letto (a seguito di un grave incidente durante il periodo del Covid) lancia al pubblico una sfida di resistenza, dove il limite di sopportazione di ognuno condiziona l’esperienza di fruizione dell’opera. Lo sfinimento, fin dove siamo in grado di tollerare e quando invece siamo chiamati a dire basta, a fermarci, ad opporci, a cambiare rotta, direzione è certamente una delle chiavi di lettura che viene offerta dalla claim Enough not enough.
In questo senso la sperimentazione di “Manifesto Cannibale” gioca con l’apatia dilagante nella nostra società, mettendoci alla prova.
La performance è appositamente tediosa, con il suo andamento altalenante e coi momenti di pathos più intensi che vengono ripetutamente interrotti. Una parte esigua di pubblico fugge via durante l’intervallo che la Pennini definisce un Vomitorium, incitando le persone a fare quel che vogliono: uscire un attimo, andarsene, tornare… Eppure la quasi totalità della platea rimane ancora un’altra ora ad osservare i performer che devono restare totalmente immobili, il più a lungo possibile. C’è molta curiosità: chi lascerà il palco per ultimo? Chi vincerà questa gara di resistenza? E così, durante questa lunga attesa, di fronte all’ultima scena dello spettacolo in cui praticamente non accade più nulla, sono gli spettatori a prendere finalmente vita…

Il coinvolgimento del pubblico e la ricerca di un legame diretto con le persone è uno degli elementi caratterizzanti l’edizione di quest’anno. Ad esempio, in “Lourdes”, di Emilia Verginelli, il pubblico entra all’interno dello spazio performativo, una sala della biblioteca comunale, dove è libero di sedersi, alzarsi, consultare i libri, bere, mangiare, in un’atmosfera d’intima condivisione.
La Verginelli guarda gli spettatori negli occhi e racconta loro la propria esperienza con la fede, di quando pregava e collezionava santini ed in particolare di come si sia venuta a creare una relazione molto forte con la Madonna di Lourdes, anche quando la sua fede era già crollata.
La narrazione si basa sull’ascolto, tenue e pacato, di una lunga serie di registrazioni, le testimonianze dei fedeli che ogni anno si recano a Lourdes in pellegrinaggio, accompagnati dai volontari, tra cui appunto la Verginelli. L’ampio dispiegamento tecnologico a supporto del racconto – audio, video, telefonia cellulare – appare perlopiù superfluo; l’intensità della ricerca portata avanti dall’attrice romana si esprime al massimo grado nella comunicazione diretta: la sua è una recitazione finemente minimale, a tratti inespressiva, vuota, apatica… Come se quell’esperienza avesse snaturato la sua personalità, il suo corpo e la sua voce, strappandole via l’ego, per trasformarla in puro veicolo a servizio dei più fragili: malati terminali, paralizzati, ciechi…
Lo spettacolo è stato finanziato da FONDO, il Network per la creatività emergente che Santarcangelo Festival ha creato l’anno scorso, con il supporto di una quindicina di partner, per dare un sostegno concreto alla ricerca in ambito performativo.

Un’altra giovane che ha usufruito di quest’opportunità, mostrando il risultato della propria sperimentazione all’interno del festival, è Agnese Banti, artista sonora, musicista ed overtone singer.
Anche in “Speaking cables” vediamo un importante dispiego di mezzi tecnologici – numerosi altoparlanti, cavi e microfoni – che, in questo caso, abitano la scena da protagonisti.
Lo spazio utilizzato è una sala bianca all’interno della Rocca Malatestiana che si raggiunge tramite delle scale anguste. Sono pochi gli elementi che compongono la scena: un linoleum bianco sul pavimento, un bellissimo arazzo sullo sfondo, numerosi cavi ed altoparlanti in riga al limite della scena.
Il pubblico, seduto su tre lati, viene avvolto da un’improvvisazione fatta di vibrazioni, riverberi e sonorità elettroniche che Andrea Trona esegue dal vivo con il suo pc in dialogo con la voce della Banti. La vediamo occupare la scena delicatamente, il più delle volte assorta negli armonici o nel canto, ma sempre a servizio della composizione visiva che va modificando, spostando di posizione gli altoparlanti e i tracciati dei cavi. Sembra d’assistere a un rito in una grotta che offre rifugio dal caos del mondo esterno. Ci si abbandona al suono e ci si affida all’arte per evadere dalla realtà, per meditare ed entrare in ascolto della propria voce interiore.

Un elemento che fortemente accomuna la maggior parte degli artisti proposti dal festival è che sono perlopiù donne. Spesso in scena da sole oppure in due, le vediamo alle prese con la necessità d’affermare la propria identità e di esprimere il conflitto che vivono col resto della società.
Al centro di questi lavori troviamo il corpo, quale strumento per manifestare la femminilità in tutte le sue sfaccettature, da quelle più vitali a quelle più fragili.
Ci riferiamo in particolar modo ai lavori di Sara Sguotti, Teodora Castellucci e Rébecca Chaillon a cui abbiamo assistito, ma si potrebbero citare anche tante altre artiste (Ana Pi, Dana Michel, Anna-Marija Adomaityte, Cristina Kristal Rizzo, Nach, Clara Furey….).

In “S.O.P – SOME.OTHER.PLACE”, messo in scena in un campo di grano, Sara Sguotti si cimenta in un’intensa esplorazione delle possibilità cinetiche del proprio corpo, snodato e sensuale, immerso in un altrove immaginario, denso e rigoglioso come una foresta pluviale.
La scena vuota si riempie coi movimenti della danzatrice che sperimenta diverse modalità per offrirsi all’ambiente circostante: aprire gli arti, inarcare la schiena, torcersi, ruotare, attorcigliarsi… Sperimenta innumerevoli modi per entrare e uscire da grovigli immaginari, per scansare ostacoli, lanciarsi verso l’alto, protrarsi verso il basso, proteggersi dagli agguati, difendersi dai nemici, scappare dai pericoli… Per guardare dentro di sé, guardando il mondo e lasciandosi guardare.

Continuando con le coreografe italiane, “I’ll do, I’ll do, I’ll do” della compagnia Dewey Dell, in scena presso Il Lavatoio, è certamente una delle proposte più intense dal punto di vista fisico, con un notevole dispendio d’energia da parte della Castellucci, che s’immola totalmente, abbandonandosi ad un’esperienza trascendente, fuori dal comune. In preda al delirio si dimena con movimenti inquietanti, frenetici, compulsivi e gli scatti del collo, ripetuti ossessivamente, sono così veloci da trasfigurarle il volto. Un rituale demoniaco, ai limiti della tortura che termina per fagocitarla senza pietà.
Nelle note di regia la compagnia cita alcuni elementi che hanno ispirato la ricerca, come casi di stregoneria, la Santa Inquisizione, una dea notturna e un rituale di fertilità della terra. La performance però assume un respiro ben più ampio dei suoi riferimenti storici e letterari, denunciando l’oppressione della donna in qualsiasi epoca e società.

Dewey Dell (ph: Luca Del Pia)
Dewey Dell (ph: Luca Del Pia)

Tra le produzioni al femminile che impiegano l’arte come mezzo di denuncia si distingue in particolar modo “Whitewashing”, a cura di Rébecca Chaillon che, insieme a Aurore Déon, si lancia a capofitto in un atto di denuncia della discriminazione razziale.
La performance, ospitata all’Istituto Tecnico Commerciale Molari, avviene in un quadrato bianco, col pubblico a ridosso, disposto su tre lati. Dall’inizio alla fine dello spettacolo gocce d’acqua sporca cadono dall’alto, colando da ghiaccioli appesi. Le due inservienti di colore lavano a terra con grossolana veemenza, usando stracci e candeggina. Una di loro (la Chaillon) ha il corpo dipinto di bianco e, mentre strofina a carponi, tenta in tutti i modi di togliersi quel colore di dosso, anche con la spugna di metallo. La collega accorre in suo aiuto, la lava dalla testa ai piedi e quando ha finito si prende cura dei suoi capelli, acconciandoli in lunghe trecce che arrivano fino al pubblico.
Così la sequenza d’azioni inizia progressivamente a diradarsi, dando spazio alla parola. Il testo (recitato in francese) cambia spesso registro, spaziando dall’ironico al poetico, tra la lettura d’annunci amorosi, ricordi d’infanzia e la denuncia d’atteggiamenti razzisti ancora dilaganti, in maniera più o meno consapevole, nelle società dominate dai bianchi.

Enough not enough è una domanda che non dovrebbe concludersi col festival e il direttore la rivolge anche a sé stesso: “Forse come curatore non ho fatto abbastanza. Alla volte manca il tempo di fare tutto, ci sono alcuni aspetti o artisti che avrei voluto seguire più da vicino. Per me è così anche a livello personale. Vorrei più tempo da dedicare alla mia famiglia, a mio figlio. In questi giorni anche lui ha visto alcuni spettacoli, ha partecipato bene”.
In realtà colpisce molto l’impegno e la dedizione che questo giovane direttore polacco mette nel portare avanti il suo mandato, mettendosi a servizio di Santarcangelo: “Il festival non è mio. Io sono una parte. C’è tutto un team di persone, che col tempo ho imparato a conoscere meglio, che lavora per renderlo possibile”.

Ma non sempre è facile trovare la rotta, ad esempio all’inizio non era affatto convinto del claim: “Enough not enough non è un messaggio positivo da mandare al pubblico. Ma poi mi sono detto: se le cose stanno così, se la realtà è questa, non bisogna negarsi la verità, altrimenti cosa stiamo qui a fare? Allora mi sono fatto coraggio e ho scelto questo claim”.
Così gli abbiamo chiesto di provare a rivolgerlo anche allo stesso festival. “Sinceramente come straniero non riesco a capacitarmi come mai un evento così importante a livello internazionale abbia ancora così pochi fondi. Non lo dico riferendomi al Comune, anzi, è notevole che un Comune così piccolo metta in campo tante risorse, ma non sono sufficienti. La precarietà è un aspetto preoccupante dell’arte in Italia, e questo è un problema ministeriale che non saprei come affrontare. Quando si vogliono cambiare le cose non sempre si hanno gli strumenti per farlo. Siamo tutti parte di un sistema”.

A tal proposito ci torna alla memoria l’idea che si era prospettata l’anno scorso di aprire uno spazio per l’identità queer che poi non è andata in porto. “Abbiamo incontrato così tante difficoltà che alla fine abbiamo capito che non era quella la via. Perché creare uno spazio chiuso? È qui in mezzo a noi che bisogna dare spazio”.

E in questo Enough not enough ci ricorda che anche quando le risorse, le idee, il tempo e lo spazio non sembrano abbastanza, in realtà è in quel Noi collettivo che si aprono le possibilità. Così all’interno di un sistema teatrale che subisce inevitabilmente le logiche di mercato, richiedendo agli artisti di creare in tempi produttivi sempre più stringenti, Santarcangelo Festival ha dato vita a FONDO, un network che unisce le forze di varie istituzioni, per offrire residenza, sostegno economico e supporto artistico alle nuove generazioni di artisti.
Un’opportunità non indifferente di cui usufruiranno Elena Rivoltini e Vashish Soobah, entrambi classe ’94, che potranno dedicarsi a un proprio progetto creativo e di ricerca durante un intero anno, da qui alla prossima edizione.

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