Silvia Costa e i grandi compiti dell’esistenza

Silvia Costa - Quello che di più grande l'uomo ha realizzato sulla Terra
Silvia Costa - Quello che di più grande l'uomo ha realizzato sulla Terra
Quello che di più grande l’uomo ha realizzato sulla Terra (photo: Andrea Macchia)
“Quello che di più grande l’uomo ha realizzato sulla Terra”. Un titolo impegnativo per Silvia Costa, autrice e regista di questo spettacolo presentato alla Casa del Teatro Ragazzi e Giovani per la quarta giornata della XIX edizione del Festival delle Colline Torinesi, che dell’opera è produttore.

Un titolo impegnativo che tiene alte le ambizioni del contenuto: una riflessione filosofica sull’esistenza, un’epistemologia della vita che si snoda sotto forma di interrogativi sospesi sulla possibilità o meno di credere in una teleologia predefinita delle azioni dell’uomo.

Ad essere interrogato è il senso: grazie ad una narrazione che prende forma in una stanza cubica dalla pareti bianche e spoglie, non esiste filo conduttore tra le scene, nature morte di vita quotidiana che si susseguono senza tempo e decontestualizzate rispetto allo spazio in una digressione quasi aleatoria. Assenza di concaten-azione sul piano reale che confluisce tuttavia sul piano metafisico in una molteplicità di dubbi, non immediatamente assimilabili tra loro, ma comunque espressione di un “cogito” comune e riflesso d’impotenza.

Silvia Costa non mette in scena la tensione, i crampi famelici dell’umanità pretenziosa di risposte, ma dipinge invece sistemi chiusi di figure spersonalizzate appiattirsi in un’accettazione inebetita di azioni che, non più riconducibili ad una causalità pregressa, si trasformano in atti accidentali mancanti di ogni compiutezza. Esiste, allora, e come si manifesta la nostra (volontà di) coscienza?

Gli eterni nodi (fortunatamente) irrisolti che pervadono millenni di filosofia occidentale si dispiegano in tutta la loro complessità giocando sulla scena a pugnalate di ermetismi.
Silvia Costa realizza uno spettacolo-performance metafisico e visuale, la cui voluta rigidità estetica traduce lo spazio in un’autoritaria e soffocante imposizione della forma, facendo uso del concreto e dell’oggetto come simboli schematici di un etereo inafferrabile.

Condannata ad una costante negazione, la condizione umana è riprodotta in una serrata recitazione di spalle a voci freddamente microfonate, che rende claustrofibico lo spazio e litànici i dialoghi, creando un senso di privazione nello spettatore che vorrebbe sedurlo beffardamente come l’ignoto con l’uomo.
Tuttavia, portata l’inespressività della parola ai suoi eccessi, semplificata all’essenziale la mimica (quella fugacemente scorgibile nei pochi movimenti attorali), l’impressione finale non è di un provocatorio straniamento, ma di un verbo lasciato in una dimensione di approssimazione forse volutamente amatoriale, ma di poco effetto. Soprattutto in contrasto con la cura impositiva dei costumi – sobri, un po’ austeri e dai colori spenti -, e delle scelte illuminotecniche, luci fredde e calde a calarsi in alternanza su corpi composti, rigidi, inamovibili.
Scelte ben rispondenti a quel gioco di decostruzione degli elementi narrativi e della messa in scena così evidentemente voluto: l’esistenza e gli interrogativi che l’affliggono possono essere detti, ma non narrati.

“Quel che di più grande l’uomo ha realizzato sulla Terra” non è una storia, ma una seduzione per quadri simbolici, estratti di conversazioni del quotidiano, di rapporti di coppia, scene statiche di conflitti irrisolti.
Anche la Storia s’inserisce nel discorso, con una digressione danzata su movenze di balli tradizionali, ma non è che una rappresentazione allegorica e fugace di un qualcosa che, di fronte ad un più ampio Umano, non può che soccombere.   

Meno chiare altre scelte, che contraddistinguono la seconda metà dello spettacolo: incursioni dissonanti di elementi “fantascientifici”, che poco stimolano tentativi speculativi di attribuire loro qualche significato simbolico in questo esoterismo della messa in scena.
Anche il finale restituisce un senso di fretta, ponendo sull’orlo del palcoscenico gli attori, finalmente frontali, a mostrarsi in un corollario di dentature fluorescenti per effetto di luci a wood da loro autoproiettate sui volti (e perché poi con neon in mano, così improvvisamente raccolti vicino alle quinte e con un incrocio di fili a rischio caduta? Un disguido tecnico o una scelta ?).
Un effetto speciale caduto nel vuoto.

“Quello che di più grande l’uomo ha realizzato sulla Terra” è un’installazione visuale che rimane in un limbo di voluta contaminazione delle arti tuttavia depotenziante. Né viene riprodotto l’effetto “velante” dello schermo, né viene sfruttata la struttura performativa teatrale, che trova nel “qui e ora” un senso di fruizione.

Ambiziosa nei contenuti, la creazione di Silvia Costa si disperde nel tentativo di rappresentare (un esercizio di descrizione?) problematiche non sintetizzabili, e più interessanti da osservare nel mondo della fisica, piuttosto che nel suo corrispettivo metafisico, soprattutto se fatto attraverso un corollario di esoterismi e simbologie che fanno sentire la mancanza della parola e l’esigenza della sua potenza pluritonale contro l’omologazione a cui costringe spesso il mondo delle immagini.
Una seduzione dell’occhio che lascia tutto sommato indifferenti per la pretesa di un’urgenza intellettuale che non trova sbocchi.

Quel che di più grande l’uomo ha realizzato sulla Terra
di Silvia Costa
regia: Silvia Costa
musiche originali: Lorenzo Tomio
con: Silvia Costa, Laura Dondoli, Giacomo Garaffoni, Sergio Policicchio
costumi: Laura Dondoli
realizzazione delle scene: Lucio Serpani
assistenza tecnica: Francesco Catterin
prodotto da Festival delle Colline Torinesi
con il sostegno di Centrale Fies
presentato con il patrocinio della Città di Torino

durata: 45′
applusi del pubblico: 1′ 35”

Visto a Torino, Casa del Teatro Ragazzi e Giovani, il 4 giugno 2014
Prima nazionale


 

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