Tomasz Kireńczuk: dalla censura in Polonia alla libertà di Santarcangelo. Intervista

Il direttore di Santarcangelo Tomasz Kireńczuk (ph © Marcin Oliva Soto)
Il direttore di Santarcangelo Tomasz Kireńczuk (ph © Marcin Oliva Soto)

Incontriamo il direttore artistico durante la 52^ edizione del Festival di Santarcangelo. Dimostra subito idee molto chiare: i soldi pubblici servono sì all’arte, ma non devono compiacere chi li eroga

Chi è Tomasz Kireńczuk, il nuovo direttore del Festival di Santarcangelo? Cosa lo muove, cosa lo attira? Perché ha scelto di venire in Italia? E cosa si è lasciato alle spalle? Cosa darà in questi tre anni a Santarcangelo?
La curiosità è tanta per questo curatore-drammaturgo-critico teatrale-attivista non ancora quarantenne e polacco. Dopo aver visto la performance “L’Âge d’or” di Cardellini – Gonzalez presso il centro commerciale “Le Befane” di Rimini, mi capita di sedergli accanto sulla navetta che ci riporta a Santarcangelo. Il tragitto dura circa mezz’ora, il tempo perfetto per un’intervista. Tante le domande che vorrei fargli per approfondire il festival, gli spettacoli, la scelta degli artisti…
Avevo letto qualcosa sul suo percorso artistico e lavorativo, ed è il peso di alcune parole come “censura” e “rigidità” che catturano la mia attenzione. Forse è lì che risiede il valore di quest’edizione del festival. È da lì che nasce la necessità di dare voce a tutti e a tutte? Di offrire agli artisti la possibilità d’esprimersi liberamente a partire dalla diversità di ognuno?

Com’è per te lavorare in un Paese straniero?
È una cosa che cercavo, è un’esperienza non solo di lavoro, ma anche di vita che aiuta molto, perché devi ripensare, risistemare le cose… Hai la possibilità di mettere a confronto il tuo modo di lavorare con le abitudini di altre persone ed il loro background culturale. Per me è importante non ripetere sempre le stesse esperienze, per non stancarsi. Ho lavorato tanti anni in un teatro che ho fondato con i miei amici. Già da un po’ di tempo sentivo che mi serviva un nuovo posto dove poter sperimentare me stesso, le mie pratiche. Lavorare in un Paese straniero apre tante possibilità. Sono contento di questo.

La tua percezione dell’arte performativa in Italia?
Ci sono tantissimi artisti di ricerca che fanno lavori super interessanti, e penso che questo movimento emergente sia enorme. Mi incuriosisce molto, vedo tanto radicalismo, tanto coinvolgimento politico… Mi piace questa connessione tra arte e attivismo, questa voglia d’essere parte del dibattito pubblico, la trovo importante. C’è tanta arte militante in Italia e questo lo apprezzo tantissimo. Allo stesso tempo vedo anche le difficoltà per la ricerca, perché c’è poca disponibilità economica, ci sono pochi spazi. Poca attenzione, forse. Gli artisti hanno tantissime difficoltà per andare avanti.

Una volta arrivato a Santarcangelo, quale sfida hai scelto di cogliere?
Ho un grande rispetto per questo festival, so quanto sia importante per la comunità artistica italiana (ma anche per quella internazionale). La sfida era proprio questa: prendere in mano un festival che ha una storia incredibile, che è stata la casa per tantissime artiste e tantissimi artisti per anni: potrà andare avanti senza perdere questa relazione emotiva…? Questo per qualcuno che viene da fuori è difficile, non conosci il sistema, non conosci le cose… Parti alla cieca. In questo primo anno io ero perso. Ho dovuto seguire l’intuito.
Un’altra sfida che mi sono dato…. Quando stavo preparando la mia proposta per il festival, riflettevo sul festival in sé. Mi sembrava improbabile poter presentare un progetto concreto per i prossimi tre anni, non sappiamo nemmeno cosa succederà domani… Mi sono concentrato sui valori di questo festival. E ho cercato di capire che cosa avrei potuto proporre io con la mia esperienza.
Il festival in sé stesso funziona bene, non è un festival che ha bisogno di un grande cambiamento, non è un festival morto che vieni a salvare, anzi, è la situazione opposta. È chiaro, ogni nuova direzione artistica porta una nuova sensibilità, nuove conoscenze, nuovi artisti…

Quale obiettivo ti sei fissato?
Un aspetto su cui si potrebbe lavorare sono le attività a lungo termine, i progetti annuali che riguardano la creatività emergente. Questi sono i campi di mio interesse, in cui ho avuto esperienza in Polonia. M’interessa capire come si può usare la potenzialità di questo festival per supportare gli artisti emergenti. La precarietà in Italia è inaccettabile, paurosa. Questa è una tematica sulla quale bisogna lavorare. Santarcangelo Festival non possiede forse grandi finanze, grandi risorse, ma avendo questa visibilità, questo riconoscimento, quest’importanza a livello internazionale… qualcosa può fare. Così siamo partiti con Krak, il progetto delle residenze.
E poi anche un altro progetto nuovo, Fondo, un fondo di supporto alla creatività emergente. Abbiamo invitato altri 13 partner italiani, molti diversi tra loro (circuiti, centri di residenza, centri di produzione, teatri stabili, festival) per costruire insieme una progettualità che ci permetta di supportare, ogni anno, due artisti in un percorso di ricerca lungo un anno. Diamo loro budget, residenza e una serie di masterclass condotte da artisti internazionali, tramite cui poter sviluppare la propria progettualità, la propria ricerca. Ho trovato molto importante aggiungere questo tipo d’attività al festival. Il suo effetto deve ricadere sugli artisti che aiutiamo.
Mi piacerebbe andare ancora più avanti con queste progettualità. Stiamo anche entrando in progetti europei connessi con queste tematiche. Mi piacerebbe far diventare Santarcangelo, anche durante l’anno, un luogo di ricerca più che di produzione.

Qual è la difficoltà più grande che hai dovuto affrontare?
Le difficoltà sono sempre le stesse: le finanze. È molto difficile dover guardare il budget così rigorosamente. Quando hai poche risorse, devi essere molto attento. Le finanze sono un problema, ci limitano nella possibilità di supportare i percorsi che ci interessano.
Chiaramente c’erano anche altre difficoltà. Ad esempio il progetto “Bright room – uno spazio di celebrazione queer”. L’abbiamo ideato insieme a partner internazionali, ma a un certo momento abbiamo capito che non eravamo in grado di realizzarlo nel modo in cui avremmo voluto. È stato un fallimento. Ma anche questo ci insegna qualcosa.

In Polonia hai incontrato delle forme di censura, di rigidità. Come le hai affrontate?
Ti racconto questo caso più estremo, connesso con un importante festival internazionale per cui ho lavorato per quasi dieci anni, l’International Theatre Festival Dialog – Wroclaw. In Polonia avevo visto in anteprima “Klątwa/The Curse” di Oliver Frljić. Mi era piaciuto tantissimo, ritengo sia uno degli spettacoli più importanti in questi anni. Lo spettacolo accusava Karol Wojtyla d’essere responsabile per la pedofilia nella Chiesa Cattolica. Era un argomento forte e delicato per la Polonia. Stiamo parlando di cinque-sette anni fa, quando ancora la discussione sulla pedofilia nella Chiesa Cattolica non era tanto presente come adesso. All’epoca Wojtyla non si toccava, era un santo. Nello spettacolo c’era una statua con un dildo che gli assomigliava e un’attrice che gli faceva un pompino. Allo stesso tempo si sentivano in off le parole di Wojtyla e sulla statua compariva la scritta: “Difensore dei pedofili”. Fu una cosa abbastanza controversa.

Te la sei andata a cercare 🙂
Sì. Lo spettacolo l’ho trovato importantissimo, e l’ho subito invitato al festival. Una settimana dopo iniziò lo scandalo. I politici di destra, anche quelli al governo, hanno iniziato ad attaccare lo spettacolo e anche il teatro. Fu una cosa molto violenta. Il ministro della Cultura diceva: “Non si può presentare questo spettacolo, bisogna fermarlo, bisogna fermare il teatro”. C’erano anche tanti nazionalisti che hanno manifestato all’entrata, non facevano entrare la gente. Veramente cose violente, di cui parlarono i giornali. C’era tanta pressione. “In nessun evento culturale che riceva un sostegno economico dallo Stato si potrà presentare il signor Frljić”, assicurava il Ministro. Ma io ero sicuro che lo spettacolo dovesse essere presentato e non cambiavo idea. Due settimane prima dell’inizio del festival abbiamo ricevuto una telefonata molto diretta (non c’è mai stato niente di scritto): “O cancelli o niente soldi”. Io ho risposto: “No, non siete voi a decidere il programma”. I soldi sono stati tolti. Erano importanti, costituivano il 30% del nostro budget. Senza quelli non potevamo fare tutto il programma, così abbiamo cancellato tutti gli spettacoli polacchi, tranne Oliver Frljić. Ovviamente il suo doveva restare, anche per rendere evidente l’effetto di queste decisioni sulla cultura: queste decisioni le pagano gli artisti e il pubblico. Quando abbiamo resa pubblica la situazione è cominciato un movimento incredibile di solidarietà. Un’associazione che supporta gli artisti ha organizzato insieme a noi una campagna di crowdfunding. In due settimane abbiamo raccolto i soldi che mancavano, tipo 80 mila euro. Alla fine abbiamo potuto fare tutto il programma, grazie al supporto delle persone che ci hanno aiutato con soldi privati. Il festival è stato salvato dalla gente. È stato un festival bellissimo, uno tra i più belli che abbia mai fatto.
Quest’esperienza mi ha fatto capire due cose: la prima è la censura economica, che è proprio un modo di censurare gli altri, difficile da capire e da combattere. Le forze del potere trovano sempre un modo di spiegarlo in maniera non diretta. Basta che si dica: “I soldi non ci sono, ci dispiace”. Qui la cosa era invece più chiara. Ma sappiamo che questo tipo di censura funziona anche in modi più occulti. In altri casi non hai questa sicurezza per poter andare dal pubblico e dire: “Guardate è stato fatto questo. Cosa facciamo?”. Ci sono artisti che il governo non supporta, ma non è mai stato detto pubblicamente. E loro non hanno la forza di reagire.
L’altra cosa che ho imparato è sull’auto-censura, che viene dopo e parte da questo tipo di situazioni. Io sentivo tante pressioni, non solo dal ministero ma anche da parte di diverse persone: “Guarda, forse è meglio cancellare lo spettacolo, il festival deve andare avanti; senza il ministero non si fa, ci sono tanti altri problemi, la relazione sarà distrutta”. E io rispondevo sempre: “Non lo posso fare. Se devo cancellare lo spettacolo allora fate il festival senza di me”. Se avessi accettato questa situazione, come avrei potuto continuare a lavorare? Avrei avuto sempre questa paura: “Cosa dice il ministero?”. No, non funziona così, i festival non devono piacere a chi mette i soldi. Sono soldi pubblici, servono ad altre cose, non a compiacere.

Hai percepito delle forme simili, meno dirette, qui in Italia?
Qui no. Mi riferisco a Santarcangelo. Per l’Italia in generale non riesco a dir nulla, perché non lo so, magari ci sono anche, ma qui io ho avuto libertà infinita. È una situazione molto confortevole. Non c’era nessun intervento per quanto riguarda la programmazione, nessuno ha mai detto: “Ci piacerebbe che tu…”. Non ho vissuto questo tipo di situazione. Santarcangelo mi ha offerto una cosa che io voglio offrire agli artisti: la libertà d’espressione.

Vi lasciamo infine a qualche altra domanda rivolta al direttore, realizzata sempre durante il festival, ma da Mario Bianchi.

 

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