Una Medea africana che riflette su profughi e conflitti etnici, nel segno dell’erranza

Jean-Louis Martinelli
Jean-Louis Martinelli
Jean-Louis Martinelli (photo: opera-national-lorraine.fr)
Questa sera Jean-Louis Martinelli debutterà al Napoli Teatro Festival Italia con Médée, una coproduzione Théatre Nanterre Amandiers e Teatro Festival Italia.
Ne ha appena parlato allo storico Gran Caffé Gambrinus di via Chiaia, a pochi passi dal porto di Napoli. Con lui Luca Scarlini, abilissimo moderatore di quasi tutte le “Conversazioni con i Protagonisti del Festival”, e Maria Cristina Ercolessi, docente di Storia e Istituzioni del’Africa Contemporanea.

Debutto atteso per uno spettacolo in cui Martinelli dirige attori africani nella messinscena della riscrittura in occitano del testo di Euripide firmata da Max Rouquette. In attesa della pièce franco-occitana, Martinelli dà il via all’incontro precisando come, il suo, non voglia essere un allestimento che sa di neocolonialismo artistico.

“Ho visto il Cyrano de Bergerac presentato in Africa – racconta Martinelli – Non li riguardava, non parlava di loro. E’ questo il pericolo del neocolonialismo”. L’Africa, invece, deve parlare di sé, non del mondo occidentale. Presentare questa versione di Medea potrebbe quindi sembrare una contraddizione. Eppure, citando Pasolini, Martinelli sostiene che l’Africa rappresenta ancora la grande idea della tragicità. Così come è grande evocatrice dell’esilio moderno.

“Lo spettacolo risale al 2004 e sono molto contento che Renato Quaglia (il direttore del festival ndr) mi abbia chiesto di riproporlo” spiega il regista francese, che nel ’77 fondò la compagnia Théatre du Réfectoire a Lione.
La Médée di Martinelli porta in scena l’incontro tra il testo in occitano di Rouquette e l’Africa: “Si fonda sull’osservazione della natura, è pieno di piante e movimenti di stelle, è avvinto all’essenziale, a ciò da cui dipende la sopravvivenza degli uomini”, appunta nel suo diario di viaggio. “C’è un rapporto strettissimo con la natura, e proprio per questo sono molto contento che sia fatto all’aperto, speriamo sotto le stelle – prosegue Martinelli – Dopo aver visto tante immagini dell’Africa non abbiamo poi voluto sceglierne una troppo ‘tipica’. Quando ho visitato a Napoli l’Albergo dei Poveri ho capito che era il luogo adatto, che poteva corrispondere all’Africa ma non solo, rappresentando i profughi di molti altri luoghi del mondo”. E, anche simbolicamente, il monumentale Real Albergo dei Poveri – da poco ristrutturato – ben s’accosta a questa tematica, avendo ospitato in passato tanti profughi dell’Italia, dai senzatetto ai terremotati: un luogo per antonomasia, quindi, di erranti, diversi e stranieri.
I salmi inventati da Rouquette per prolungare i dialoghi – dalla passione all’angoscia all’abbandono – sono affidati al coro delle donne Bambara, che cantano nel proprio dialetto sulla musica composta da Ray Lema: “Lema conosceva un gruppo di donne che avevano la funzione di cantare ai matrimoni e ai funerali. Sono state scelte loro per il coro”.

Max Rouquette, pur essendo un grande autore del Novecento, è un poeta molto poco noto sia in Italia che in Francia. La sua unica tragedia è Médée. “Rouquette ha scelto di scrivere in occitano non come scelta politica diretta ma, penso, per dar voce alle minoranze. Nessuno aveva mai messo in scena Médée. Quando Rouquette è venuto a vederla, ormai ultraottantenne, ha detto: ora posso morire felice”.

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