Alla ricerca di un pubblico militante. Riflessioni dal Fit Festival

Tanya Beyeler in scena per Numax-Fagor-Plus (photo: Blenda)
Tanya Beyeler in scena per Numax-Fagor-Plus (photo: Blenda)

“Quali possono essere i modi in cui si manifesta l’atto partecipativo dell’osservatore? E’ la domanda che ci poniamo, senza la pretesa di una risposta, in questi giorni di festival”.

Si era chiuso con questo interrogativo, stimolato dalla visione di “The Moscow Trials”, il racconto dei primi giorni del FIT – Festival Internazionale del Teatro e della Scena Contemporanea del Canton Ticino, terminato domenica con la danza di MK e Cristina Rizzo ed il visionario “Much ado about nothing” di David Espinosa.

Riprendendo le fila del discorso, torniamo allora al già citato “Numax-Fagor-Plus” del regista Roger Bernat (il suo “Please Continue Hamlet”, presentato al Fit nel 2013, sarà in scena a Milano, negli spazi di Zona K, a fine novembre).

Concettualmente ambizioso, “Numax-Fagor-Plus” è la rilettura diacronica della chiusura, avvenuta il 13 novembre del 2013, della fabbrica Fagor Electrodomésticos, fondata nel 1956 dalla Mondragón Corporación Cooperativa (80.000 dipendenti e 110 cooperative affiliate).

Il fallimento di Fagor, che lasciò senza lavoro circa 1800 lavoratori, prevalentemente soci ed investitori, coincise allora con lo sgretolarsi dell’immagine di un modello d’impresa alternativo cui i dipendenti avevano creduto di contribuire, “proteggendosi” dalle dinamiche di strozzinaggio del mercato capitalistico.
Sullo shock identitario, individuale e collettivo che si produce interviene Roger Bernat, coadiuvato dal concetto di “tempo transitivo” che sottende il lavoro drammaturgico e l’investigazione storica di Pablo González Morandi.

Collegando le vicende della Fagor all’occupazione operaia della Numax Electrodomesticos avvenuta nel 1979 in simili condizioni strutturali, Bernat tenta la collettivizzazione di un discorso di lotta, in aperta contrapposizione con l’isolamente storico cui è spesso relegato il gesto politico nel postmoderno, reciso dalla genitorialità narrativa dei suoi presupposti ideologici. Ma è una genitorialità ancora possibile, ancora riconoscibile?

“Numax-Fagor-Plus” nasce da un “errore”, da un impedimento tecnico: quando l’“equipo” del regista catalano porta all’interno dell’assemblea degli operai Fagor il documentario “Numax presenta”, testimonianza di un’annuale resistenza, girato da Joaquim Jordà e dagli stessi scioperanti nei giorni caldi dell’occupazione del ’79, il film non viene proiettato.
Bernat registra allora, sulle orme del lavoro di Jordà, l’assemblea che nasce spontanea: il testo di “Numax-Fagor-Plus” è debitore degli interventi estrapolati da questi due momenti storici, riattualizzati nei teatri di oggi.

Disposto circolarmente attorno a due schermi sui quali scorrono le parole pronunciate dagli operai del 1979 (primo atto) e del 2013 (secondo atto), il pubblico si trova a ricreare esso stesso un’atmosfera assembleare e a dar voce, in una lettura corale, alle donne e agli uomini della Numax e della Fagor.

“Plus” è allora il momento scenico, l’imprevedibilità dell’azione re-enacted: le parole “Amnistía laboral / Readmisión despedidos / Antes nos reprimían, ahora nos reprimen / El pueblo unido jamás será vencido / Libertad sindical / Viva la clase obrera” vengono sostituite dalle più attuali “Democracia real ya/ No somos mercancía en manos de políticos y banqueros/ Stop desahucios / No nos representan / Toma la calle / Democracia 2.0 / Juventud sin futuro / Esta crisis no la pagamos”.

La voce del pubblico, privato di ogni possibile illusione scenografica che medi sull’immedesimazione, si limita ad amplificare un copione: a sussurrarlo, a biascicarlo, ad urlarlo.
Il risultato dello spettacolo è dunque imprevedibile, oscillante sul grado di coinvolgimento cui gli spettatori scelgono di sottoporsi, sul grado di “compromissione” (questo allora è teatro politico!) del singolo spettatore nei confronti della collettività-pubblico: chi leggerà la parte della “ragazza con i capelli corti”, chi sarà “l’anziano compagno”?

Inevitabilmente termometro della reattività di un “micro-campione” sociale, sia in relazione a tematiche attuali e scottanti, ma anche rispetto ad un fare teatro che destruttura l’intimità del buio in sala e la fruizione spettacolare “comodamente seduti”, “Numax-Fagor-Plus” registra, nello Studio Foce di Lugano, una calda temperatura. L’imbarazzo lentamente si supera e al comando “gli operai si alzano e ballano” il pubblico abbandona le sedie e si pone al centro della sala. Lo fa davvero, e sembra anche divertito.
Eppure ciò che rimane è un senso di smarrimento, di una difficile empatizzazione, di una difficile riattualizzazione dei sentimenti di rabbia e delle istanze politiche che diedero vita alle proteste.

Il terzo atto dello spettacolo dimostra, attraverso un dialogo immaginario tra i lavoratori Numax e gli operai Fagor in vicendevole accusa, che la storia può essere anche piena di fratture irrisolte e di solitudine.
Citiamo allora le “regole del gioco” spiegate da Bernat: “Prenderai decisioni che non saranno condivise dal resto degli spettatori. Il meccanismo tende ad individualizzarti. Questa solitudine, che è più evanescente che fisica data la presenza degli altri spettatori, si accentuerà perché, come nota Agamben, il dispositivo tende ad evadere ogni autorità. Non ti troverai davanti un sistema forte con cui confrontarti facendo dell’unione un’arma e, di pari passo, generando la sensazione di comunità. Qui ti sentirai solo”.

Come solo si sente il “critico”, finalmente liberato dalla sua funzione: se “Numax-Fagor-Plus” pare, ad una prima impressione, fallimentare, proprio per il vuoto emozionale che produce, forse è necessario accettare che l’esperimento scenico di Bernat si rimetta intenzionalmente alla capacità dell’uomo e della donna che lo agisce, in spazi e tempi specifici e sempre diversi, di impugnarne il senso drammaturgico.

Privato delle sicurezze analitiche attraverso cui parlare di “teatralità”, altrettanto strumentalizzato ed altrettando vittima dell’elevata imprevedibilità narrativa di “Numax-Fagor-Plus”, il “critico” è amalgamato al resto della comunità spettatrice. Smarrisce il proprio ruolo, viene costretto a sottoporsi al ricatto delle stesse regole del gioco (un esperimento interessante mentre in Italia è in corso la fertile polemica sul manifesto “La fortezza vuota” di Civica e Scarpellini, inclusivo, tra l’altro, di digressioni sugli “obblighi di un critico militante”).

Sono altrettanto (e drammaticamente) chiare le regole del gioco in “Ash and Money”, montaggio cinematografico del processo di teatralizzazione della società estone messo in campo dal collettivo teatrale No99, attraverso la creazione fittizia di un partito politico capace di mobilitare l’intera opinione pubblica, di coltivare seguaci, di scomodare testate giornalistiche e politici in carica.

Già conosciuto per precedenti lavori provocatori, tra cui il recente successo al Festival d’Avignone con “My Wife Got Angry”, No99 porta agli estremi i meccanismi retorici intrinseci degli uffici di comunicazione dei partiti.
Senza inventarsi nulla, attinge dalla storia e osserva le reazioni collettive, dichiarando esplicitamente le proprie progettualità artistiche e negando intenzioni di prossime candidature elettorali. Eppure il populismo che riproduce con “Unified Estonia”, giocando con sottile intelligenza ed ironia e dimostrando una profonda conoscenza socio-politica del contesto estone, seduce il “pubblico votante” e fa smarrire ai più il confine tra “messa in scena” e “mobilitazione di massa”.
L’esordio è chiaro: “If you are not interested in politics, that doesn’t mean that politics is not interested in you”.

Chi li ha presi sul serio, benché loro siano un numero esiguo, garantisce che No99/Unified Estonia otterrebbe addirittura 25 seggi in Parlamento, ma al Ministro della Giustizia, sentitosi preso in causa da una delle loro rappresentazioni e alla sua domanda “Cosa avete da dire a proposito?”, rispondono: “Nulla. Siamo attori”.

“Ash and Money” si rivela essere non solo un’ottima opera cinematografica (per montaggio, ritmo, inquadrature), ma soprattutto un’ottima operazione teatrale, un duro lavoro di mesi ed uno schiaffo morale alla società.

Similmente incentrato sulla retorica politica ed il “ghost-writing”, lo spettacolo di concezione austriaco-spagnola “Your Majesties” sceglie linguaggi più tradizionali: Marta Navaridas e Alex Deutinger riproducono il discorso pronunciato da Barack Obama in occasione della premiazione a Nobel per la pace, decostruendolo con un interessante dispositivo scenico.

Con un’interpretazione impeccabile ed un curatissimo accento americano, Alex Deuntinger è Obama, maestosamente solo sulla scena di fronte al pubblico.
Alle spalle degli spettatori, invisibile, se non per volontaria rotazione dello sguardo, Marta Navaridas conduce su un altro palcoscenico la gestualità fisica che il presidente dovrà riprodurre fedelmente a specchio.
Controllare il linguaggio del corpo è strumento d’efficacia per ogni narrazione diplomatica: nessuna espressione e nessun gesto spontaneo deve tradire la perfezione strategica dell’esposizione e comprometterne la forza persuasiva.

E’ proprio sulla retorica mimica che giocano quindi i due danz-attori; il personaggio Obama verrà scisso tra l’universalismo umanitario del discorso di premiazione e la gestualità sboccata, ironica, dissacrante di un corpo marionetta manovrato dai fili invisibili del meccanismo-Navaridas alle nostre spalle. Il singolo spettatore, responsabilizzato nella tessitura dell’inganno, sceglie allora quale palcoscenico osservare e cosa vedere.

Messo in scena al Lac, Lugano Arte e Cultura di recente inaugurazione, “Conférence des choses”, della compagnia svizzera 2bcompany, per la scrittura scenica di François Gremaud e Pierre Mifsud, ridicolizza invece profondamente il rapporto tra pubblico e attore.
L’atto scenico non si differenzia da una lezione universitaria: il pubblico è già seduto, ed un personaggio sommesso entra in una stanza con lo zaino in spalla, salutando i presenti, dando il benvenuto a tutti alla “conférence”.

Strutturato per episodi della durata di un’ora l’uno circa, “Conférence des choses” è una presa in giro tutta verbale sulle associazioni logiche del pensiero e delle assonanze linguistiche, un elogio della banalità riprodotto con lo stile conferenziale della trasmissione accademica del sapere.

A prescindere dal modo in cui l’azione teatrale ha compromesso il tradizionale ruolo del pubblico, il principio qualitativo della partecipazione attiva e curiosa degli spettatori, pieni di domande da porre alle compagnie a fine performance, è stato un dato significativo dei giorni trascorsi al Fit.

Le occasioni di dibattito e confronto che hanno seguito gli spettacoli-conferenze-esperimenti in programma, con la partecipazione e mediazione di Simona Gonella, sono parte della risposta al quesito che ci eravamo posti su cosa sia e come si realizzi un teatro partecipativo.

Se “gli spettatori attraversano un dispositivo che li invita ad obbedire o cospirare e, in ogni caso, a pagare con il proprio corpo e compromettersi”, secondo le parole di Bernat, allora il desiderio di comprensione e decodificazione dell’atto visivo cui abbiamo assistito da parte del pubblico è sicuramente un compromesso fisico maggiore di uno (spesso dovuto) applauso finale.
Attraverso scelte accattivanti e affatto scontate, il Fit 2015 è stato anche questo.

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