A Lugano per un teatro partecipativo, tra elezioni e processi

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IFeel2 di Marco Berrettini (photo: fitfestival.ch)|La proiezione di The Moscow Trials di Milo Rau durante il FIT
IFeel2 di Marco Berrettini (photo: fitfestival.ch)
IFeel2 di Marco Berrettini (photo: fitfestival.ch)

Treno FFS in direzione Lugano per raggiungere il FIT – Festival Internazionale del Teatro e della Scena Contemporanea alla sua 24^ edizione.
Il confine Italia-Svizzera scompare attraverso il finestrino nell’accelerata cadenza del moto ferroviario, tanto che la divisione geografica tra Lombardia e Canton Ticino parrebbe più eterea di una sottile linea d’ombra, se non fosse che Chiasso, zona di frontiera, restituisce l’ormai quotidiana drammaticità dei fermi dei migranti. Prima che i vagoni ripartano, un uomo presumibilmente privo di documenti viene fatto scendere dal treno dal Corpo Svizzero della Polizia Migratoria.
Una voce dagli altoparlanti si scusa con i passeggeri per il ritardo accumulato.

Arriviamo a Lugano. Le prime chiacchiere che scambiamo al Fit, nel centro logistico-organizzativo del festival e luogo di incontro per artisti, pubblico ed organizzatori (dove assistiamo alla prima giornata del progetto Cantiere1.Tre60Arti con la drammaturga e pedagoga Simona Gonnella sul teatro partecipativo) sono attorno ad un tavolo sparecchiato, lasciate fluire nella calma di un momento collettivo di pausa.

Attraverso le fessure delle associazioni logiche che partono da digressioni sul teatro, entrano anche i fatti di cronaca: il caso della presunta aggressione della polizia comunale ai danni di un venditore di rose avvenuta a Lugano quest’estate e le conseguenze del referendum sul salario minimo svoltosi in Svizzera a maggio 2014.
E’ clima elettorale: domani, 18 ottobre, si voterà per le federali e i giornali danno la destra per vincente.

La riflessione politica che il contenuto di quest’edizione del FIT propone è dunque incasellata in un concetto di contemporaneo non solo “scenico”, ma immanentemente attuale.
D’altronde è teatro vivo ogni teatro capace di trovare nella società il suo referente, da questa partire e a questa rivolgersi, con questa contaminarsi e da questa farsi suggestionare. Affatto un’ovvietà, né nel teatro né nella vita, se sottoposti quotidianamente al dogma della tassonomia e della logica per compartimenti stagni.

Dopo i tre atti de “L’origine del mondo” di Lucia Calamaro come apertura e le compagnie italiane Il Duende e Mc Teatro, in concorso per il Fringe/l’AltroFestival, ad aprire la quarta giornata del festival è “iFEEL2”, creazione seduttivamente concettuale di *Melk Prod. con Marco Berrettini, Marie Caroline Hominal e Samuel Pajand.

Su una scena sostanzialmente spoglia, composta da sporadici “posticci arborei” dal colore verde muschio e sospesi per mezzo di fili trasparenti, si muove sulle note di una tromba smoothjazz il seminudo di due corpi, il femminile ed il maschile in contrasto.
Il rinvio è a due figure note: lei sarebbe Raymonda, protagonista di “un balletto in 3 atti, 4 scene con apoteosi” creato da Marius Petipa per i Teatri Imperiali di San Pietroburgo nel 1898; lui Paul Taylor, pionere della danza moderna americana.

“If, as George Balanchine said, there are no mothers-in-law in ballet, there certainly are dysfunctional families, disillusioned idealists, imperfect religious leaders, angels and insects in Mr. Taylor’s dances” si legge dalla biografia sul sito ufficiale della compagnia del coreografo americano.
L’illusione della “grazia”, quale categoria propria di un femminile da sempre estetizzato ma socialmente amputato, ci porta da Raymonda ad “iFeel2”. La “grazia” sarebbe qui tradotta nella plasticità di un corpo di donna spogliato di fronte al pubblico, mimicamente statico, reiterato sì nei gesti meccanici e privi d’interruzione di una coreografia “a partitura” schematica, ma metafora d’immobilità biologica, appunto “dysfunctional”.

In antitesi, guardandosi fissi l’un l’altra, si muove di fronte a lei il corpo maturo di un uomo, apparentemente litanico ed alienato dallo stesso ritmo ciclico di movenze sempre uguali, che tuttavia infrange il sospeso metafisico della scena con la sua fisicità reale. Si osserva banalmente un corpo sudare, unico elemento vivo su una scena materialmente sintetica, chirurgicamente asettica.

Narrativamente poco è ciò che accade. Gli elementari cambi di quadro avvengono sulle note di un suono, composto tra l’altro dagli stessi Berrettini e Pajand, in progressiva stratificazione tematica: il delicato solo trombettistico si abbandona nella psichedelia elettrica di una chitarra, silenziandosi poi sul monologo registrato di una donna che vocalizza sensualmente sulla parola “nature”.
I due corpi tracciano linee fittizie sulla scena, spostandosi nello spazio pur mantenendo identici movimento e reciprocità della direzione di sguardo. Ciò che muta sono le loro ombre, il gioco di riflessi e luci ad ampio spettro.

In “iFeel2” ogni elemento pare rinnegare la vita: l’ipnotica struttura coreografica sempre identica a sé stessa delude ogni aspettativa di dinamicità scenica ed ha il sapore di un accanimento terapeutico, così come il corpo contemporaneo rinnega oggi la sua naturale decomposizione biologica, pur etichettandosi “one hundred percent natural”, come ricorda l’erotica voce femminile fuori campo.

Una creatura surreale, partorita da una delle piante appese nell’indifferenza dei corpi in scena, infrange l’alienazione narrativa e si fa testimone della “prestazione” del duo. Coperto di foglie come ne “La vestizione della sposa” di Max Ernst, la figura boschiva banchetta osservandoli come se fosse di fronte ad uno schermo televisivo e loro i suoi automi.
Ecco che quei corpi diventano un’opera altrui, spossessati di ogni istinto, nutriti come animali in gabbia, significati nel loro sfruttamento, abbandonati al loro volontario silenzio, alla loro sconfitta.

“iFeel2” si rivela essere una narrazione sulla condizione umana, costruita intelligentemente attraverso una struttura puramente simbolica, senza cercare nella sua cripticità un valore aggiunto, come spesso accade nelle opere che abusano di forma.

La proiezione di The Moscow Trials di Milo Rau durante il FIT
La proiezione di The Moscow Trials di Milo Rau durante il FIT

La serata procede, sempre negli spazi dello Studio Foce, con la proiezione del film “The Moscow Trials” del regista svizzero Milo Rau, creato in collaborazione con l’International Institute of Political Murder di Berlino.
L’istituto, fondato nel 2007 per rafforzare lo scambio fra teatro, fine arts e cinema con l’obiettivo di agire sulla memoria collettiva ri-teatralizzando significativi momenti storici, riflette proprio sugli aspetti teoretici di questo scambio di tecniche e linguaggi artistico-narrativi diversi, applicati al teatro politico, alle istallazioni grafiche, cinematografiche e sonore.

E’ ciò che avviene in “The Moscow Trials”, testimonianza dei tre giorni di processo-farsa svoltosi negli spazi del Sakharov Musemum a marzo del 2013 per ridiscutere sulla libertà di espressione e di dissenso politico e religioso in Russia, in seguito alla censura applicata dal governo di Putin sulle azioni delle Pussy Riot e sul silenzio delle autorità nei confronti di un gruppo di ortodossi che distrusse una mostra di arte contemporanea proprio al Sakharov Museum.

L’équipe di Milo Rau compone una giuria popolare fedele al criterio dell’eterogeneità, convoca le parti (non attori, ma le parti in causa in carne ed ossa), avvocati, giudici, cameraman, fotografi, giornalisti. Il processo si svolge secondo le norme procedurali vigenti e diventa un caso mediatico.

Rivendicata la possibilità di emettere sentenze da parte di una collettività in piccola scala autocostituentesi, “The Moscow Trials” si svolgono per volontaria sottrazione al monopolio del potere giuridico statale, incriminandone l’inefficacia ed il vizio di non neutralità.

Il film registra i giorni in “aula” (l’allestimento è fedele a quello dei tribunali di Stato) intermezzato da interviste e testimonianze. Gli imputati, da una decisione della giuria con tre voti a favore della loro innocenza, tre contrari ed un astenuto, vengono giudicati non colpevoli dalla Corte.

Qual è allora il confine tra realtà e finzione in un processo che, pur ponendosi come “messa in scena”, coinvolge le vere vittime e i veri accusatori di un evento politico reale?

Ecco che la dialettica si sviluppa per triadi: come si relazionano arte, propaganda e politica? Qual è il rapporto tra realtà, finzione e potere? E fra  teatro, rito e anche diritto?
Non è forse un tribunale anche un teatro, alle cui regole ci si sottopone per atto collettivo di delega su cui si basano le fondamenta del contratto sociale?
Il potere giuridico moderno, monopolio esclusivo, viene qui messo in discussione attraverso un rito alternativo per la risoluzione delle controversie. Affinchè funzioni è necessario un atto di credenza da parte dei partecipanti, un’accettazione delle regole, una legittimazione collettiva della sua veridicità. Questo non rende il processo inscenato al Sakharov un processo reale, indipendentemente dalla sua mancata istituzionalità?

D’altra parte le autorità russe interrompono lo svolgimento del processo intervenendo nei locali del museo: il mondo esterno s’infiltra nella realtà sospesa del tribunale-fittizio e questa, viceversa, penetra nel mondo esterno, sottoponendosi al giudizio dell’ “opinione pubblica”. Eppure, come afferma una delle Pussy Riot incriminate per l’incursione punk nella cattedrale del Cristo Salvatore di Mosca: “The authorities knew about this trial. They just decided to participate this way”.  Qual è quindi il “vero” campo in cui azione e reazione si manifestano?

Il concetto di “parvenza” sostituisce filosoficamente quelli meno cognitivamente accessibili di “verità” e “finzione”: un unico piano reale è inutilmente identificabile. Orson Welles, che maestralmente ritorna come fonte d’ispirazione per ogni atto di teatralizzazione sociale, ha costruito sull’impossibilità logica di esperire la verità del reale uno trai i suoi film più interessanti dal titolo, appunto, “Fake”.

Al termine della proiezione del progetto di Milo Rau se ne discute con Mohammed Soudani, regista di origine algerina, naturalizzato svizzero, proponendo un confronto con l’analogo esperimento teatral-cinematografico del collettivo estone No99, “Ash and Money” di cui vi parleremo più approfonditamente nei prossimi giorni.

Il fil rouge che ci conduce dal documentario di Milo Rau ad “Ash and Money”, passando dallo spettacolo di teatro partecipato di Roger Bernat “Numax-Fagor-Plus” e “Your Majesties” di Marta Navaridas e Alex Deutinger, che avremo occasione di approfondire, è proprio la riflessione su come la scelta di un piano narrativo che scardini la struttura di fruizione tradizionale del teatro possa innescare anche un piano di rivendicazione politica, oltre che estetica.

Restiamo allora al Fit. Quali possono essere i modi in cui si manifesta l’“atto partecipativo” dell’osservatore? E’ la domanda che ci poniamo, senza la pretesa di una risposta, in questi giorni di festival.

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