Andrea Cosentino. Angelica intervista all’artista burattinaio

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Andrea Cosentino è Angelica
Andrea Cosentino è Angelica, a Milano fino al 1° aprile
Nel suo spettacolo “Primi passi sulla luna” Andrea Cosentino si dipinge addosso un geniale autoritratto dell’artista da morto. Come a dire che dalla fine si parte, per risalire fino all’inizio, o meglio, fino alla ricostruzione di un senso. Come a dire: tutto torna, alla fine. Tutto si riaccocchia, per dirla alla Cosentino.
Un Andrea Cosentino, dunque, forse il più rappresentativo Cosentino del teatro europeo contemporaneo. Quel Cosentino attore/autore straordinario, uomo di teatro a tutto tondo, adolescente prepuberale, enfant prodige, enfant terrible (data la forte carica provocatoria della sua opera), un prodige terribile insomma.

Artista spartiacque tra due secoli, lui stesso amava definirsi in queste divagazioni per il suo spettacolo postumo, intanto che sceglieva quale arte del ‘900 accompagnare crudelmente (se Artaud), didatticamente (se Brecht), chi non portare proprio (se la Raffaello Sanzio) verso il 2000.

Attore straordinario: di parole, di fonema, gestuale, una leggenda.
Andrea Cosentino aveva lo stesso sguardo sognante e un po’ allucinato dei suoi personaggi in scena, uno sguardo che sottintendeva una comicità al limite della tragedia, usata come strumento di sopravvivenza e di straniamento dal reale, per cavarne fuori quella poesia nascosta e necessaria.

Se Cosentino fosse ancora qui con noi, gli chiederemmo innanzitutto e pirandellianamente: cosa succede quando ti credi un genio e tutti gli altri personaggi che hai dentro di te ti credono un deficiente?
Tu pensi che sia il mio caso, quindi… Questa è l’autoironia che io faccio nei miei confronti, ma io posso fare autoironia nei miei confronti. Se gli altri fanno ironia nei miei confronti io mi offendo, sono molto autoironico ma anche permaloso… Di me dico cose belle e brutte ma mi piacerebbe che gli altri di me dicessero cose belle e basta. I miei personaggi sono dei deficienti, ma nel loro animo c’è anche la mia deficienza. A me piace che, anche se metà del mio teatro è fatto di macchiette, di mentecatti, come li chiamo io, non giudico mai i miei personaggi. Loro sono una parte reietta di me. Io mi metto alle loro spalle, neanche mi vedono, e del teatro a loro non importa nulla, non si accorgono neanche che il teatro esiste, perché fanno parte del nostro sociale. Di conseguenza i miei personaggi non mi giudicano.

E dove ti avrebbe portato la tua ricerca sul linguaggio teatrale universale, che non chiameremmo narrazione ma piuttosto un linguaggio televisivo autarchico a filiera corta, se non fossi morto?
Ma quindi facciamo tutta l’intervista come se fossi morto?
Sì… dove mi avrebbe portato? Gli ultimi dieci anni della mia ricerca si sono basati sul raccontare, ma non raccontare storie, bensì spettacoli. Mi spiego: in tutti gli spettacoli io cerco di raccontare, smontandolo, lo spettacolo che sto facendo. Il mio sforzo è quello, in un certo senso, di mostrare la magia e poi svelare il trucco. Nello spettacolo “Primi passi sulla luna” credo di aver spinto questo meccanismo all’estremo, perché ci sono io che parlo e basta, eppure c’è uno spettacolo che compare. E’ qui che ho scritto il mio elogio postumo e sono morto. Adesso mi devo inventare una nuova strada. Allora mi sono inventato “Esercizi di rianimazione” dove io mi devo appunto “rianimare”: il nuovo spettacolo nasce un po’ dalle mie origini, che sono quelle del clown, ed è uno spettacolo quasi muto che si appoggia su un’improvvisazione totale, senza parole. Di fatto il teatro per me è la relazione teatrale, cioè quello che accade tra me e il pubblico. Questo è il tentativo di sottrarre il senso, per concentrarsi sul far accadere le cose, che poi è il principio del clown, con tutto l’esibizionismo infantile che ne consegue. Il debutto ufficiale sarà a maggio a Teatri di Vetro di Roma.

Andrea Cosentino
Andrea Cosentino
Quando parli, parli sempre così veloce?
Sì, perché parto dall’assunto che il teatro è noioso. Allora il mio parlare veloce deriva dal fatto che io penso che lo spettatore si annoi (perché io sono uno spettatore pessimo, che guarda sempre l’orologio) ma vorrei ricreare spettacoli dove lo spettatore, una volta uscito, abbia ancora qualcosa che lo insegue e che non ha ancora assimilato e che lo segue a metà strada mentre sta andando a casa o, ancora meglio, se io sono stato abbastanza veloce, lo raggiunge addirittura il giorno dopo. Mi piace pensare che le cose che metto nei miei spettacoli, non si faccia in tempo a consumarle tutte in teatro.

Come mai hai portato sulla scena, come clown burattinaio, così tante diverse figure di mentecatti?

Mi piace la dimensione del comico e dell’avanspettacolo. Mentecatto è un termine desueto, ma è colui che ha i suoi limiti e di questi limiti noi ridiamo. Gli eroi non li metto in scena. In “Angelica”, ad esempio, al centro c’è un’attrice che ho visto davvero, perché è venuta a casa mia a girare uno sceneggiato per la televisione. Carina ed incapace, lei non riesce a fare questa scena di morte. Il meccanismo che uso in “Angelica” è lo stesso che applico con altri tipi di mentecatti: prendere una creatura apparentemente disprezzabile e tirarne fuori la sua passione. Angelica, di fatto è passione e morte di un’attrice, ma lei, man mano che la scena andava avanti, diventava la Madonna, l’Agnus Dei di questa piccola tragedia che stava accadendo.
Per lo stesso motivo mi piace tirar fuori l’umanità dei personaggi attraverso delle Barbie, dei pezzi di plastica per mostrare l’artificio con cui cerco di dare delle verità. Non mi interessa vedere un’attrice brava che fa bene l’attrice cagna. Mi interessa che il pubblico si commuova di fronte ad una gamba di plastica che agonizza dentro al mio finto schermo televisivo. E poi, io non mi considero al di sopra di quel livello.

Secondo te, è insito nella natura dell’artista di voler essere voluto bene, o è stata una tua specifica necessità?

Secondo me, se  l’artista non ammette subito il suo esibizionismo narcisistico infantile, per cui ha gode dello stare in scena, non ce la fa, poi, a dire di più e di altro. Non credo che sia una missione. Una volta ammesso il proprio narcisismo, va lì e, immediatamente dopo e di conseguenza il proprio fallimento, si può poi cominciare a parlare di cose serie. O essere leggeri. Di base il teatro è un gioco, non credo nel teatro necessario. Il teatro è un lusso, il gioco sì che è necessario.

Hai detto una volta: se tutti guardassero più tv, il mondo sarebbe migliore. Puoi approfondire e dirci anche qual è il tuo programma preferito?
Ma io non ce l’ho la televisione a casa! Però mi piacciono un sacco i film di animazione, li guardo con mia figlia. Da piccolo guardavo Mazinga Zeta, Furia cavallo del West, Ufo Robot. Poi sono passato direttamente a Ghezzi e, di notte, mi guardavo Fuori orario, i film dei kazaki in un unico piano sequenza, e  mi convincevo che mi piacevano tantissimo.

Perché le persone dovrebbero continuare ad andare a teatro, oggi come oggi?

Il teatro come forma di rappresentazione è obsoleta. Uno spettacolo teatrale è mediamente più noioso di un film e un brutto spettacolo teatrale è immensamente più noioso di un brutto film. Le persone dovrebbero continuare andare a teatro perché è un luogo vivo. Non sono particolarmente affezionato alla parola teatro, per me si tratta di evento dal vivo. Bisogna avere di fronte delle persone che creano delle cose davanti a un pubblico. Ecco perché le prove, secondo me, sono il momento più interessante. Molto spesso quello che viene portato in scena in teatro è già morto. Io blocco il processo a metà, non provo i miei spettacoli  e li invento davanti al pubblico perché la mia ambizione, magari già fallita o fallimentare, è quella di far assistere le persone al momento
della creazione dello spettacolo, piuttosto che mostrarne il risultato. Se no è meglio andare al cinema.

Se potessi fare una tv dei bambini, come la faresti?
I bambini sono belli, divertenti e giocano insieme a te. Mi piacerebbe utilizzare Telemomò, la mia televisione interattiva, autarchica, a filiera corta (tanto per autoironizzare), per far fare a loro la televisione, e immunizzarli una volta per tutte dalla brutta televisione degli ultimi vent’anni. Mi piacerebbe far reinventare ai bambini la televisione che incamerano già dai primi anni di vita, rimontandola e rismontandola a piacimento, utilizzando gli stessi giocattoli che poi uso io nei miei spettacoli (pupazzi, macchinine, Barbie, nani di plastica). Mi piacerebbe partire dal linguaggio televisivo basico (primi piani, inquadrature) per far loro risputare fuori l’immaginario colonizzato dalla tv. Imparare a fare le cose rende più consapevoli. Giocarci le rende più umane. Se un bambino impara a giocare con la tv, non la subisce più.

La televisione sempre accesa, che scandisce il tempo con i grandi eventi e con i suoi personaggi che continuano a vivere e morire, è un modo per esorcizzare la morte?
Nel mio caso è un modo per parlare della società che la esorcizza continuamente. “Angelica”, ad esempio, nasce per Pasolini e dal concetto di omologazione culturale che lui profetizzava quarant’anni fa. Secondo me questa omologazione è già avvenuta. Questo mio parlare di televisione è un modo per dire che cosa siamo diventati, perché è il linguaggio in cui siamo immersi continuamente e che ci forma da quando siamo piccoli.

Andrea Cosentino è Angelica
Andrea Cosentino in Angelica
Fino al 1° di aprile sarai in scena con “Angelica” al Teatro Litta di Milano. In questa occasione stai anche girando un video sperimentale su uno spettacolo teatrale meta televisivo. Ci racconti il progetto?
Il progetto è nato con Annamaria Monteverdi, che mi ha chiesto di filmare “Angelica”. Io ho rilanciato la cosa, proponendole di utilizzarlo con i suoi studenti per vedere se il linguaggio televisivo può parlare del mio teatro, che parla di audiovisivo. Una bella sfida, come piace a noi sperimentatori intellettuali. La difficoltà è come riprendere il teatro e, per non ammazzarlo, come inventare un’altra opera.

E i tuoi personaggi come l’hanno presa?

I miei personaggi sono sempre contenti di andare in televisione.

In “Angelica” dichiari apertamente che tu racconti spettacoli e che il ruolo di narratore lo deleghi al personaggio della Vecchietta, tuo alter ego. Chi è quella vecchia lì?
Da un lato sono io, dall’altro è una vecchietta che abitava in un paesino abruzzese, Loreto Aprutino, dove io avevo una fidanzata, e facevo le cene con i genitori e la nonna. A un certo a punto si zittivano tutti perché cominciava Beautiful. Ho voluto raccontare la nuova mitologia popolare: una vecchia che, al posto di narrare la guerra, si appassiona al sottobosco putrido delle telenovelas. E’ un modo per smitizzare la figura del narratore e del tramandare la saggezza, perchè credo che qualcosa si sia rotto e non si possa più recuperare.

Qual è il tuo rapporto con il pubblico che viene a vederti?

Amorevole e bello, anche solo per il fatto che hanno scelto di venire a vedermi. Hanno tutta la mia stima.

E che ruolo ha, nella tua messa in scena?
Io, senza pubblico, non esisto. Se non ho nessuno davanti non riesco a parlare. A me piace di più di tutto il pubblico variegato: anziani con giovani, studenti con metalmeccanici e non è una cosa comune. Uno dei segni del decadimento del teatro non è che manca il pubblico, ma che sono sempre gli stessi. Il teatro diventa, allora, un club privé, come ho già detto in passato.

Quanto ami i personaggi che emani, e quanto vivono dentro di te?
Non è che li amo, è che mi ci affeziono. Ho tre o quattro personaggi fissi che mi seguono, che tornano nei vari spettacoli, al punto tale che gli spettacoli dialogono tra di loro attraverso i personaggi che li attraversano (il Fumatore, o il Viterbese che io neanche parlo). Sono surreali e, in fondo, c’è sempre il mio desiderio di giocare col pubblico e inventare storie strampalate.

E tu quanto ti ami?
Sempre meno. Mi amo abbastanza, ma è da tanto che non mi guardo allo specchio. E’ il diventare adulti, cavolo… Se mi guardo da molto lontano penso: però, figo Cosentino. Poi però no, che sto a dì…

Sorride Andrea Cosentino, con il suo viso da clown, poetico burattinaio di sé. 

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