Edinburgh Festival giorno 4: con Jonathan Storey e Michael Sabbaton tra horror e animazione

Jonathan Storey
Jonathan Storey
Jonathan Storey (photo: jackpratchard.blogspot.com)

Non è piacevole scoprire che ti hanno rubato lo shampoo. Il tuo preziosissimo Radox shower gel/shampoo two in one. Ben 1 pound e 77 da Tesco. Devi averlo inavvertitamente dimenticato nella doccia. E qui (come in ogni ostello) funziona così, se lasci qualcosa in giro, diventa di proprietà di chi lo trova. In cucina ci sono cartelli dappertutto che avvertono: qualsiasi cibo lasciato incustodito nel frigo o nelle dispense che non sia segnato con il tuo nome, diventa proprietà pubblica. L’addetto di turno provvede a riporlo nella scatola di plastica con su scritto “free food”.
Guardati un po’ intorno, basta poco per capire che c’è chi, qui, ha fatto di questa sorta di goffo comunismo la principale via per la propria sopravvivenza. Ieri ti sei seduto al tavolo comune durante la colazione, consumando il pane che hai gelosamente etichettato col tuo nome e hai sentito di sfuggita la coda di un discorso a proposito di un losco figuro che – di proposito – toglie le etichette dai cibi che preferisce, in modo che diventino “free food” e possa mangiarseli lui. Praticamente un mostro, una sorta di uomo nero del Royal Mile Hostel. (O, anche, uno stile di vita). Ti sei tenuto stretto il pane e gli hai lanciato un’occhiata nostalgica: poteva essere l’ultima volta che ti faceva compagnia a colazione.

Decidi di lavorare un po’ a questo tuo diario fino a dopo pranzo. Stai alla tua terza revisione e al tuo terzo tè quando un ospite decide di scaldare a microonde un pollo arrosto intero e di divorarselo placidamente tutto da solo, davanti ai tuoi occhi, mentre legge le pagine di The Scotsman. Ma non sopporti quell’odore mischiato al tè al bergamotto e finalmente vai a procurarti un altro shampoo. La doccia ristora sempre e ora sei pronto per guidare il tuo passo fino a The Zoo, dove vedrai “Jack Pratchard”. Quando eri ancora a Roma, guardando il programma per scegliere gli spettacoli da vedere, nella sezione ‘puppetry’ questo ti aveva colpito subito. Avevi letto qualche breve nota a proposito dell’autore, Jonathan Storey, e sul suo modo estremamente artigianale di raccontare storie. In più “storey” e “story” si pronunciano alla stessa maniera e tu a questi giochi di parole da “destino-nel-nome” sei del tutto vulnerabile.

Le aspettative, dunque, te le eri create da solo, senza chissà quali recensioni a guidare la scelta (qui le ‘stelle’ assegnate dalla critica sono praticamente il solo e unico biglietto da visita). Ma non immaginavi di rimanere così affascinato.
La storia è quella del povero Jack Pratchard, che una mattina di dicembre muore schiacciato da un pianoforte in caduta libera da un palazzo. Il suo viaggio nell’Aldilà lo porterà, in compagnia del Virgilio di turno, a scoprire che il mondo dei morti non è altro che la creazione di qualcuno che continua a ripetere lo stesso sogno da secoli. A governare questo mondo – rappresentato come una città che muta incessantemente forma come in un’incisione di Escher – è una Regina, che altri non è che il primo umano ad essere morto, nella notte dei tempi. Lei chiederà a Jack di aiutarla a ritrovare suo marito, che dalla sua morte ha perso la ragione. Si scoprirà alla fine che è proprio il marito della regina, il potenziale sovrano del regno dei morti, a star sognando tutta la storia. Siamo dentro un suo sogno che si incrocia con la realtà. E il mondo dei morti è nascosto nel suo cappello.

Una trama metafisica così complessa, che viaggia per simboli e rimandi a diverse mitologie, è raccontata nella maniera più semplice. Storey usa una voce piana, senza accento, la voce di un cantastorie per bambini. Al proprio ingresso in scena si presenta con nome e cognome, indica alla sua destra un giradischi e alla sinistra “la sua macchina”, così la chiama. “Con l’aiuto di questi due amici oggi vi racconterò la storia di Jack Pratchard”. La “macchina” è un complicatissimo marchingegno completamente costruito da lui in legno: una scatola aperta verso il pubblico attraverso cui Jonathan, su binari posti a diverse profondità, fa dolcemente scorrere i vari scenari e le varie sagome, tutto intagliato e dipinto da lui. Senza quinte, senza che niente nasconda niente, tutto completamente alla luce dell’unico riflettore puntato in scena. Ogni effetto speciale è completamente artigianale. Jonathan non teme lunghe pause tecniche, non teme silenzi, ha la pazienza di chi ha costruito una macchina perfetta e sa di essere il solo a saperla far funzionare.

La decina di persone presente in platea insieme a te assiste rapita, intenerita, mai annoiata. E quando, liberata l’ultima cordicella, quella che fa riabbassare il sipario sul piccolo teatrino, Jonathan ringrazia, ti trovi ad avere gli occhi gonfi di lacrime. Aspetterai che tutti escano, andrai da lui, ti presenterai con il tuo nome e una volta tanto non avrai fretta di dirgli che sei un giornalista che viene dall’Italia, vorrai solo ringraziarlo del lavoro fatto. Lui ti risponderà con un sorriso troppo buono per questo mondo. Gli consegnerai il tuo biglietto dicendogli semplicemente: “Thanks again for your work. Please, let’s stay in touch” (Grazie ancora per il tuo lavoro. Per favore restiamo in contatto). Di lui riceverai qualche riga la mattina seguente. Ti ringrazierà ancora, ti dirà di aver capito dal biglietto che sei uno che scrive di teatro e che, se volessi, lui ti manderebbe immagini e maggiori informazioni. Ma soprattutto ti chiederà di far girare un po’ la voce. Sì, lo hai fatto subito, appena tornato in ostello hai sparso i flyer sul tavolo e alla reception. Questo umile spettacolo merita davvero di essere visto.

Quando esci “piovono gatti e cani”, come dicono qui. Arranchi fino all’ostello, dove sei costretto a fermarti per un paio d’ore aspettando che spiova. Il giretto preventivato per andare a scegliere quale sia il tartan più adatto alla sciarpa di cachemire che vuoi comprare a tua madre è rimandato. Così te ne stai rannicchiato in un angolo della cucina, il computer aperto davanti, come un marinaio in attesa che si calmi la tempesta. Riesci a incrociare lo sguardo di qualcuno in webcam, poi prendi la via per Hill Street, dove al teatro omonimo ti vedrai uno spettacolo finalmente commerciale. L’hai scelto perché in questi ultimi anni, da amante dell’horror al cinema e nella letteratura, ti chiedi se sia possibile o no portare quel genere a teatro. Ripensi ai racconti di H.P. Lovecraft, letti e riletti ai tempi del liceo, come ad alcuni tra gli esempi più vividi di terrore provato leggendo un libro. Era inevitabile dunque cascare in “Call of Cthulhu”.
Michael Sabbaton mette in scena cinque personaggi diversi, entrambi piegati alla follia dall’orrore dell’incontro con Cthulhu e i Grandi Antichi, divinità preistoriche che dimorano nell’ombra di un’altra dimensione in attesa di risorgere per porre fine all’umanità. Con forse un pizzico di delusione da parte tua, nessun mostro comparirà in scena, nessun effetto speciale se non controluce arancioni, l’uso massivo della macchina del fumo, una partitura sonora legata agli stilemi anni ’80 e un sagomatore verde smeraldo puntato su un piccolo scrigno, che rappresenta quell’altro mondo di cui Cthulhu è il terribile sovrano. Quindi la fantascienza è tutta nell’interpretazione.

L’orrore è nella mente umana e non c’è segno più evidente di follia del parlare da soli. L’americanissimo Sabbaton è andato a scuola dal cinema thriller; la sua recitazione, mutuata dai lunghi monologhi catartici dei perfidi mostri dell’horror popolare, punta alla mimica e non riesce a non inciampare nei cliché alla Jack Nicholson quando si cala nella rappresentazione degli stadi più profondi di quella follia. Qualcuno direbbe che forse “non ha fatto un seminario con Danio Manfredini”. Ma le pretese non sono poi alte, ti sei seduto come spettatore e non come critico. Avevi voglia, diciamo, di una serata blockbuster con un po’ di popcorn. Dopo danza, psicodramma, tragedie/gospel, amleti vari e teatro d’animazione, dopotutto sentivi di meritartela.

Ti resta la cena e il dopocena. Sei tutto determinato a raggiungere il Mosque Kitchen, ristorante dietro la moschea che vanta “the best curry in town”. Ma su Nicolson Street, mentre i gatti e i cani continuano a venire giù, il tuo occhio viene rapito da un localaccio subito accanto al Festival Theatre, a metà tra un “greasy spoon” (così si chiamano in Gran Bretagna i ristoranti un po’ unti) e un diner alla maniera di Coney Island. Pensi che questo è il posto dove John Fante e Samuel Beckett sarebbero andati a cena stasera. E ti cali nello stomaco una bollente baked potato, prima di metterti a scrivere.
Finirai la serata in grande stile andando a sentire un po’ di “premium scottish music” al Whisky Pub di High Street. E dormirai tranquillo la tua ultima notte in ostello. Sì, peccato per il curry della moschea. Ma dopotutto sotto a quel cartello “the best curry in town” non c’era nessun nomone a firmare la citazione. Forse se lo saranno scritti da soli.

JACK PRATCHARD
costruito e interpretato da Jonathan Storey

THE CALL OF CTHULHU
di e con Michael Sabbaton
produzione: Remarkable Arts

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