Marco Baliani: ascoltiamo Sciascia e Pasolini perchè grandi voci illuminate oggi non ce ne sono più

Marco Baliani
Marco Baliani (photo: Enrico Febbo)

Salirà stasera, con “La notte delle lucciole”, sul palco del Teatro di Rivoli (TO) facendo rivivere le parole di Leonardo Sciascia.
Perché per Marco Baliani, oggi, di intellettuali di questa portata, l’Italia non ne ha più.
Considerato l’inventore del teatro di narrazione, Baliani debutta nel 1975 con alcuni spettacoli per ragazzi. È “Kohlhaas”, del 1989, a sancire la sua vocazione di narratore. Ma lui è anche regista, attore cinematografico e drammaturgo.

Con “La notte delle lucciole”, spettacolo del 2007 che vede alla regia Roberto Andò, sono proprio le parole – quelle di Sciascia e quelle di Pasolini – a farsi protagoniste e testimoni dell’inarrestabile e amara trasformazione della società italiana.

Quanto bisogno c’è, oggi, di ascoltare queste parole?
Lo spettacolo è abbastanza sconcertante perché ciò che sentiamo sembra sia stato scritto l’altro ieri, mentre sono passati trent’anni. Il che vuol dire, ahimè, che in tutto questo tempo il Paese non è andato avanti e, semmai, è quasi tornato indietro. Nello spettacolo ci sono diversi frammenti, tratti dagli scritti di Sciascia e da poesie di Pasolini (di cui c’è anche un intervento vocale, durante un’intervista): si passa dall’infanzia di Sciascia alle sue riflessioni dopo la morte di Moro. Tutte parole che si rifanno ad un ambito politico, nel senso etimologico del termine, come ‘polis’, oppure legate a una sfera intima. Ed è proprio questo secondo aspetto quello forse meno conosciuto di Sciascia: il grande intellettuale che riflette sul suo senso di inadeguatezza, sulla propria incapacità d’essere un insegnante, sulla sua incomprensione dell’omosessualità di Pasolini; ci troviamo di fronte ad un uomo che si confessa e si rammarica. Il pubblico ascolta attento perché sono cose che hanno a che fare con noi, con temi che ci riguardano: la morte, la corruzione, il senso della pietà, il problema della violenza…

Nell’Italia contemporanea quanto è sentita l’assenza di intellettuali della portata di Sciascia o Pasolini?
Le figure che appaiono nei media sono quelle che vogliono vendere: la ricerca dello scandalo è finta, finalizzata solo alla distribuzione delle copie del libro di prossima pubblicazione. Sciascia e Pasolini, invece, amavano cercare la verità per prima cosa in loro stessi, a costo di sacrifici e di andar anche contro di sé. Questo non succede più.

Quindi non vedi figure in grado, oggi, di farsi carico dell’eredità di questi maestri.
No, direi anzi che c’è un’assenza totale. Se poi si vuole andare a cercare, si troverà magari il poeta nascosto nella piccola provincia, ma purtroppo non sono figure che incidono sulla società. Sciascia e Pasolini scrivevano sul “Corriere della Sera”, intervenivano in Parlamento… facevano sentire le loro voci. Oggi, invece, le voci che parlano sono abbastanza inutili, perchè non ci aiutano a comprendere la realtà e ad essere lucidi rispetto a quanto sta succedendo. Ciò non significa che anche quest’epoca non abbia figure interessanti: penso a Tabucchi, Erri De Luca… ma non hanno la stessa forza dirompente.

Coco Leonardi
Coco Leonardi in ‘La notte delle lucciole’ (photo: Lia Pasqualino)

In una precedente intervista hai parlato della difficoltà di lavorare, in teatro, sotto la supervisione di un regista che non sia tu. Com’è andata con Roberto Andò?
Con Andò c’è un rapporto di fratellanza, per cui potrei dire che ci siamo fatti la regia a vicenda e insieme abbiamo lavorato molto bene. “La notte delle lucciole” nasce durante le riprese in Sicilia del film di Andò “Viaggio segreto”. Ci fu chiesto di inaugurare lo spazio del Teatro Montevergini a Palermo e partimmo da un reading: non pensavamo sarebbe poi diventato uno spettacolo. Abbiamo iniziato a lavorare sui testi e Andò è stato molto bravo a collezionarli in questo modo. Io ho aggiunto delle cose sull’affaire Moro perché avevo fatto “Corpo di Stato”, e poi sono venuti gli altri attori, perché è uno spettacolo che, pur essendo di ascolto e di parola, e in cui io sono strumento delle parole di Sciascia (cercando di mostrarmi e di recitare il meno possibile), vede anche altre presenze. A partire da Coco Leonardi, un grande attore che – pur avendo pochissimo testo – ha una presenza fisica notevolissima e, di volta in volta, è la vittima sacrificale dei teppisti di Pasolini, il bidello perseguitato dei ragazzini a scuola e un vecchio pazzo del paese di Sciascia: assume diverse funzioni così come le assumono i sei ragazzi adolescenti in scena.

A proposito di adolescenti, tra i tuoi lavori più importanti e amati c’è “Pinocchio Nero”, un progetto che hai realizzato insieme ad Amref con i ragazzi di strada di Nairobi. Sembra che il romanzo di Collodi, in questi anni, stia avendo una grande riscoperta: dal progetto di Armando Punzo a Benigni, dalla mostra oganizzata a Milano in questi giorni alla prossima fiction Rai. Questa riscoperta nasce da una reale necessità legata al nostro tempo, all’epoca contemporanea?
Bisogna vedere come ognuno lo rilegge, essendo pieno di possibilità interpretative. “Pinocchio” è un grande testo, è una delle grandi opere letterarie della nostra storia occidentale. Per quanto mi riguarda, quando l’ho fatto in Africa era un tornare a un mondo di morti di fame, nel senso che quando fu scritto da Collodi l’Italia era un paese di pezzenti e il romanzo raccontava la storia di un poveraccio, di un ragazzino che ce la fa ma a costo di fatiche inenarrabili. È invalso l’uso di leggere Pinocchio come un ribelle, e la sua trasformazione viene vista quasi con rammarico, preferendolo un burattino rispettoso. Questa, tuttavia, è una lettura che deriva dalla nostra società del benessere. Quando vai in Africa e la fame è una realtà molto concreta, diventare un bambino ‘normale’ è una grande impresa.

Sei considerato, in Italia, l’inventore del teatro di narrazione. Cos’è l’arte del narrare? E come fa l’oralità a trasformarsi in realtà “tangibile” davanti al pubblico?
In realtà è il corpo che racconta. Tutti pensano che il narrare sia legato al testo e alla sua costruzione. Invece finchè il corpo non riesce a sentire le cose che sta raccontando non diventa narrante. La parola è un medium, un veicolo, e arriva solo se la sensorialità del corpo è attiva, potente: solo in questo modo gli spettatori vedono quello che non c’è. Puoi anche avere un bellissimo testo, ma se lo dici ‘attorialmente’ (in quella maniera tradizionale, un po’ roboante) è un fallimento. Perché rispetto alla recitazione la narrazione è una cosa più rozza e più raffinata allo stesso tempo. È qualcosa che ha a che fare con la vita di tutti i giorni: si deve sentire che il narratore è impastato della stessa materia degli spettatori; non è qualcuno che è più alto.

Marco Baliani - La pelle
Baliani nell’ultimo lavoro del 2008 ‘La pelle’ (photo: Enrico Febbo)

Tema scottante: i finanziamenti al teatro. Alessandro Baricco dice basta e propone, anzi, di dirottarli altrove. Antonio Rezza, in un’intervista, ci disse che non di denaro c’è bisogno bensì di spazi per i giovani. Sono provocazioni fini a se stesse o c’è un fondo di verità da prendere in considerazione?
Quella di Baricco mi sembra davvero una proposta che lascia il tempo che trova. Ed è strano che a esternarla sia proprio lui, che ha ricevuto un bel finanziamento per fare un film. Che poi il teatro abbia bisogno di un ‘repulisti’ per come i soldi vengono distribuiti senz’altro. Ma i fondi dovrebbero anche essere il triplo di quelli attuali, come accade nel resto d’Europa. Il problema sta proprio lì: in cultura, nel nostro Paese, non s’investe. Detto questo bisognerebbe poi affrontare il problema dei finanziamenti in tutte le strutture italiane, dove contano gli amici, le lobby, le famiglie. Una logica che non riguarda solo il teatro ma tutto un Paese che, anziché diventarlo davvero, è rimasto una serie di campanili.

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