Peeping Tom. Lo straordinario guardone belga conquista l’Italia

Escher - Relativity|A louer
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A louer
A louer – Peeping Tom (photo: © Herman Sorgeloos)

Dopo dieci minuti di spettacolo confesso che mi sono trovato a pensare: “Oh cazzo, questi sono l’anello di congiunzione fra l’uomo e Marthaler, o forse Marthaler è l’anello di congiunzione fra l’uomo e loro”.
Loro sono Peeping Tom, la celebre compagnia belga ospitata a Teatro a Corte in prima nazionale con la nuova creazione “For rent/A louer”, spettacolo in programma stasera alle 21,30 per l’apertura del Drodesera festival.

Ormai la fama della compagnia belga dal tratto personalissimo ha varcato il confine nazionale, e da alcuni anni viene riconosciuta come una delle avanguardie più eccentriche ed incisive della nuova scena europea.
E a giudicare da quello che abbiamo visto a Torino dobbiamo ammettere che la cosa non è eccessiva, ma corrisponde al vero.

Classificare la loro forma di espressione scenica come teatro-danza (o dentro uno qualsiasi degli altri generi) è effettivamente ardito, perché tutti gli attori sono artisti polivalenti, in grado di farsi interpreti della più raffinata arte circense come della pratica attorale più tradizionale.
L’universo creativo di Peeping Tom sembra un po’ come la fiaba del pifferaio magico, una fiaba dolce con un finale tristissimo, a tratti angosciante, una fiaba che materializza gli incubi presenti nello spettacolo: la genitorialità ossessiva e schiacciante, il senso della fama, la ricerca dei fantasmi dell’inconscio, gli uomini e i topi.

Il nome della compagnia, Peeping Tom, è ispirato al personaggio della leggenda di Lady Godiva, incarnazione dell’uomo che rimase cieco dopo aver guardato la donna che nuda cavalcava per il villaggio. Insomma, il prototipo del guardone punito, costretto a vivere tutta l’esistenza nel ricordo del suo attimo più bello e al contempo più drammatico. Ricorda questa figura Edipo, e qui ci pare di chiudere ancora il cerchio con la genitorialità, l’incestuoso desiderio.

Escher - Relativity
Escher – Relativity

In un salotto di una casa perbenissimo, di fatto una dimora nobiliare, una donna si agita col suo maggiordomo asiatico, cercando di scacciare le proprie visioni. Inizia così lo spettacolo.
Ovviamente la donna non riuscirà in alcun modo nell’intento, e anzi di lì a pochissimo queste visioni, come branco di topi sbucati dalle lunghe tende rosse, si impossesserà prima del palcoscenico e poi dello spettacolo, prendendo successivamente forma umana e costruendo una trama nonsense attorno ad alcuni nuclei allucinogeno-narrativi: il cameriere liquido, la soprano isterica, suo figlio nudo, il marito sconfitto, il gemello del maggiordomo che sbuca da un quadro, i visitatori della casa museo, il pubblico dello spettacolo della soprano. Il tutto in un vortice di saliscendi scenici dove l’ambientazione si fa via via più escheriana, fino a ricordare chiaramente architetture come quella del famoso “Relativity” del 1953.

Il titolo dello spettacolo fa riferimento ad una logica dell’affitto. Come questo si leghi intimamente a quello cui si assiste non è immediato, e in fondo forse non è nemmeno importante.
Quello di cui siamo sicuri è che, per lunghissima parte, assistiamo a qualcosa di “mai visto”, ad un’esplosione di creatività sconnessa e strabordante, con luci fuori scena belle come in Italia le sa fare solo Gigi Saccomandi, disegnate in modo da lasciar intuire che il palcoscenico è solo una parte di un tutto, un tutto che – gira e rigira – ti arriva dentro l’anima.

Lo spettacolo dura quasi un’ora e mezza e la sensazione è che, se durasse 10/15 minuti in meno, sarebbe perfetto. Così com’è, resta sicuramente un allestimento di devastante potenza, capace di angosciare e far ridere, da vedere per capire quanto, a volte, la scena nazionale sia un po’ ferma. Ecco, è il classico spettacolo che, quando si vuol pensare a quanto ciò che vediamo sui nostri palcoscenici sia vecchio di qualche decennio, andrebbe preso a modello di tutto un genere che in Europa ha avuto grandissimi interpreti, andando a vario titolo e per affinità divergenti dalla Bausch a Marthaler, mentre in Italia non abbiamo avuto né registi né interpreti all’altezza.

E’ singolare come tanta della nuova creatività scenica europea abbia casa e luogo di partenza in Belgio, una nazione forse più in crisi dell’Italia, diventata tre anni fa colonia economica della Francia, eppure capace artisticamente di una forza innovatrice nell’arte performativa. Tanto da far sembrare quello cui, in media, si assiste in Italia come il pallido tratto della carta velina colorata lasciata al sole sul cruscotto della macchina per qualche giorno, e che piano piano sbiadisce.

For rent/A louer
Concept & direction: Gabriela Carrizo, Franck Chartier
Dance & creation: Jos Baker, Eurudike De Beul, Leo De Beul, Marie Gyselbrecht, Hun-Mok Jung, SeolJin Kim, Simon Versnel
Assistant to the directors: Diane Fourdrignier
Costumes: Diane Fourdrignier and HyoJung Jang
Lighting: Ralf Nonn
Sound design: Raphaëlle Latini, Juan Carlos Tolosa, Eurudike De Beul & Yannick Willox
Set design: Peeping Tom, Amber Vandenhoeck and Frederik Liekens
Set construction: KVS-atelier
Technical director: Pierre Willems
Technicians: Marjolein Demey, Joëlle Reyns, Hjorvar Rognvaldsson, Filip Timmerman, Wout Rous & Amber Vandenhoeck
Production: Peeping Tom & KVS
Coproduction: Théâtre de l’Archipel Perpignan, El Canal Centre d’Arts Enscèniques Salt/Girona, Cankarjev Dom Ljubljana, La Filature Mulhouse, Le Rive Gauche Saint- Etienne-du-Rouvray, Guimarães European Cultural Capital 2012, Hellerau European Center for the Arts Dresden, Festival International Madrid en Danza 2012, Festival de Marseille 2012
durata: 1h 20′
applausi: durata non rilevata, ma pubblico in piedi in tripudio!

Visto a Torino, Teatro Astra, il 15 luglio 2012
Prima nazionale

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3 Comments

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  1. says: Renzo

    Gentilissimo Rini
    i temi che lei apre nel suo commento argomentativo sono una riflessione ahimè particolarmente vera sullo stato dell’arte.
    Quello che mi pare sia assai aderente al vero nel nostro paese è lo scambio fra finzione e falsità, come mi capitava di dire ultimamente con alcune persone a me care.
    Il teatro dovrebbe essere un mondo di finzione, ovvero di questioni vere ma narrate attraverso l’espediente dell’irreale, cose quindi finte ma non false, perchè aderenti invece alla condizione materiale della vita, o ad essa ricollegabili per analogie, contrasto ecc.
    La realtà del teatro nazionale invece si popola non di finti Rodrigo Garcia, che già sarebbe grasso che cola, ma di falsi Rodrigo Garcia.
    Questo è tipico delle società arretrate in campo d’arte, ovvero l’avvento del Falso, del falsario, del copiatore. Se pensa al successo delle copie d’arte nelle civiltà decadenti avrà chiara la percezione di quale sia l’attuale stato del creativo in Italia, in riferimento al fatto teatrale.
    Su questo non esistono cure che possano essere del solo teatro. Esistono cure che devono nascere dalla società. E tuttavia non si deprima. Io negli ultimi tre mesi ho visto anche lavori assai ardimentosi di giovani compagnie, come quelli di PhoebeZeitgeist su Copi a Milano, o l’Ubu Rex del teatro degli Scarti, o l’ultimo lavoro di Mariano Dammacco.
    tentativi coraggiosi di pensare oltre il consueto alla prassi scenica, per tornare a fare altissima finzione senza falsità

  2. says: Massimo Rini

    Sto cogliendo l’occasione “biennale” per studiare ( per quello che si può fare su internet) il fenomeno Carrizo. Qualcosa di simile in Italia è, chiaramente Emma Dante, con una maggiore propensione allo sfarzo (ovvero in Belgio Peeping Tom riesce a essere prodotta a condizioni più vantaggiose di quelle che gode (?) la nostra Dante in Italia)
    Il punto è uno solo: creatività e fantasia. Unita magari a un maggiore sostegno economico.
    Sembra incredibile, ma ha ragione Ronconi quando usa la frase “il teatro oggi muore di conformismo”, vedi (http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/spettacoli/201004articoli/54266girata.asp).
    La media dei teatranti italiani, i quali fanno la lotta quotidiana per unire il pranzo e la cena ( l’espressione è figurata)
    è costretta a rifiugiarsi nel conosciuto, nella moda, per poter incontrare il favore di pubblico, direzioni artistiche organizzative e critica. E quindi il risultato ne risente, appiattendosi in quel “conformismo” che la contraddistingue sia nei settori della tradizione che in quelli della cosiddetta ricerca ( ma abbiamo visto quanti finti Rodrigo Garcia ci sono in giro nel nostro paese?)
    Forse le condizioni di maggior vantaggio, forse anche qualcosa di propriamente culturale stacca i signori Chartier da tutti gli altri, una gioia, una libertà, uno sprezzo del pericolo (tutto il loro lavoro è un fottersi del pericolo proprio di lasciarci le penne: quella danza di coppia con la bimba in mano in Le Salon, il vorticoso e finto investimento d’auto in La VIe Inutile ). E’ proprio una questione di “felicità” , apertura profonda. Quindi la soluzione è nelle nostre mani. Forse in Italia, finché si mantiene lo “status quo”, la condizione legislativa in materia di spettacolo e cultura rimarrà sempre la stessa, ma almeno non si morrà di conformismo.

  3. says: Massimo Rini

    Francabandera, io la amo solo leggendo i suoi report, ma sentirla parlare così dell’Italia ( hai ragione) , mi angoscia.