Zaches: a Short Theatre il fascino dell’idiozia e gli abissi della visione

Il fascino dell'idiozia (photo: shorttheatre.org)
Il fascino dell'idiozia (photo: shorttheatre.org)
Il fascino dell'idiozia (photo: shorttheatre.org)
Il fascino dell’idiozia (photo: shorttheatre.org)

Buio. Buco nero della ragione. Terra fertile per la visione. Per l’immaginazione. Terra di solitudini da esplorare. Spazio d’idiozia. Di notte, allo scuro, tutte le vacche non sono più nere.
Stando nella propria fantasia ci si perverte a fantasticar retrogradandosi. E ogni regressione può essere esplorazione, affondamento o purificazione. Una minaccia: il buio prepara lo spirito ad uno stato di prossimità alla morte.

Zaches Teatro, compagnia toscana che dal 2007 lavora sull’interazione drammaturgica di differenti linguaggi artistici, arriva finalmente a Roma per merito di Short Theatre. E lo fa con quel “Dittico della visione” di cui avevamo parlato con la compagnia già quattro anni fa, visto che il progetto – cominciato nel 2009 – è concepito come una trilogia che parte da suggestioni pittoriche.
Il primo passo di questa ricerca di trasfigurazione visionaria è “Il fascino dell’idiozia”, generato affrontando e rielaborando le “pitture nere” di Francisco Goya. Lo affrontiamo di nuovo oggi, a qualche anno di distanza, per osservarne la maturazione.

Il ciclo di opere murarie del pittore spagnolo, “nere” tanto per scelte cromatiche quanto per cupezza di tocco e di tono, è il segno liminare e terminale della ricerca pittorica di Goya. Concepite negli ultimi anni di vita, con in mente ancora i giorni del terrore rivoluzionario parigino e cariche di figure deliranti, sull’orlo dell’informe e del macabro, sono il lascito di un pittore divenuto sordo ma sempre più visionario e veggente, i fantasmi della sua immaginazione. Crudeltà disperata di un eccezionale “idiota”, alienazione di un vecchio non udente, reclusosi a dipingere i suoi mostri interiori sulle pareti della sua casa.

Zaches interpreta lo spirito compositivo che si può supporre abbia invaso Goya, ne esalta la sottrazione di elementi a livello compositivo (la predominanza del nero, il corpo ridotto a figura poco più che animale, l’esigenza di rompere con i cliché del linguaggio), ma lo spettacolo risulta meno efferato, meno crudele, meno affetto d’orrore, lasciando spazio a qualcosa che si avvicina più alla favola che all’incubo.

“Il fascino dell’idiozia” è un congegno scenico perfetto che, giovandosi dell’invisibile ma evidente profondità spaziale, ha nella partitura sonora e nella drammaturgia della luce gli elementi cardine, quelli che ci inducono in suggestione guidando l’azione delle performer (Andrea Lorena Cianchetta, Martina Garbelli, Enrica Zampetti) verso un viaggio perturbante, rituale, iniziatico, nel buio della storia, nella bestialità d’una origine che può benissimo coincidere con l’apocalisse, lontano dalla rincorsa all’attualità, ai misfatti della cronaca presente.

Il suono elettronico di Stefano Ciardi restituisce l’inquietudine tipica di un respiro affannato, quella di uno spirito attonito, nell’ipertensione di un senso stimolato ad esigere più del solito, nella menomazione dello sguardo. La visione infatti è sottratta ad una identificazione immediata di ciò che viene percepito, ad una significazione palese dell’azione.

Lo spazio non ha confini netti, nell’indistinguibilità delle figure dal fondo, nel gioco di luce che nasconde e poi rivela il tulle che ci separa dalla scena.
E i i corpi, nudi e nervosi, sono apparizioni temporanee, dalla durata informe, tagliati da fuochi laterali che feriscono l’oscurità facendoci intravedere arti mobili, partiture minime, un fuoriuscire embrionale dalla propria zona d’ombra.

Palpitazioni effimere, nella combinazione di furia e controllo, guerra fratricida e istinto d’autodistruzione. Lotte primordiali, con maschere che fanno virare verso l’allegoria le movenze umane, e un successivo gioco d’ombre (quello che più ricalca una delle pitture nere, “Duello con bastoni”), che si risolve in un via vai di sembianti sulla strada della stilizzazione. Simulacri ingannevoli dalle fattezze di primate e poi di capro; favole nere che covano perturbate. Il tutto è dissennato, vibrante, al passo con la presunta struttura che permea i nostri sogni.

Merito a Zaches è di insistere a lavorare – citando le loro stesse dichiarazioni – sull’atto di vedere come forma articolata di percezione. Significativo poter assistere ad uno spettacolo del genere, che gli stessi Zaches indicano come un’indagine sulla “espressione che precede il codice”, in un festival che ha nella “rivoluzione delle parole” l’input di questa edizione.

Resta, magnifica, l’esperienza dell’inafferrabilità, di quell’oscurità che lascia felicemente sospesi e sorpresi, nel più vasto terrore percettivo e interpretativo. Un abisso notturno, un enigma della visione.

Dittico della Visione. Il fascino dell’idiozia #1
regia, coreografia e drammaturgia del suono: Luana Gramegna
scene, maschere e luci: Francesco Givone
musica originale, video e live electronics: Stefano Ciardi
performer: Andrea Lorena Cianchetta, Martina Garbelli, Enrica Zampetti
voce: Enrica Zampetti
una produzione 2009/2010 di Zaches Teatro
co-produzione: Kilowatt festival 2009 – Eruzioni Festival 2009
residenze: Teatro Studio (Scandicci,FI), CRT Milano, Teatro Comunale G. Papini (Pieve Santo Stefano, AR), I Macelli (Certaldo, FI)
Compagnia sostenuta dalla Regione Toscana
Vincitore del premio come miglior spettacolo al TeatarFest di Sarajevo
Finalista al Premio Equilibrio Roma 2009 all’Auditorium Parco della Musica
Selezione Anticorpi EXPLO’ circuito della Giovane Danza d’Autore 09/10
Finalista all’AICC 2010 (Aahrus International Choreography Competition) in Danimarca

durata: 40′
applausi del pubblico: 1′ 30”

Visto a Roma, La Pelanda, il 4 settembre 2014

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