Primavera, tempo di bilanci. È ormai ben nutrito il carnet di spettacoli che, anche quest’anno, la rassegna Schegge ha saputo offrire al pubblico torinese, un pubblico composto da giovani e aficionados, periodicamente raccolti – nel buio vestibolo del Cubo Teatro di via Pallavicino – per assaporare, appunto, delle schegge di teatro, alcune davvero capaci di conficcarsi nella pelle.
A chiudere il 2016 sono stati ospitati, in collaborazione con la rassegna Concentrica organizzata dal Teatro della Caduta, gli attesi “Ci scusiamo per il disagio” dei pistoiesi Gli Omini e “Gianni” di e con Caroline Baglioni.
Il primo è uno dei tasselli costitutivi del pregevolissimo e affascinante Progetto T, realizzato dalla compagnia in collaborazione con l’Associazione Teatrale Pistoiese per rilanciare la Ferrovia Porrettana con messinscene, happening e attacchi d’arte: la stazione, crocevia di binari, diventa un gorgoglio di voci, registrate con cura da un toscanissimo gruppo di attori-etnologi. Un’intersezione di parole, uno spazio di incontro e di scontro fra noi e gli “omini” (gli altri, appunto).
“Gianni”, intenso monologo che si ispira alla voce di Gianni Pampanini, aveva vinto il Premio Scenario per Ustica nel 2015, con la seguente (per noi importante) motivazione: “Colpisce la trasformazione di un materiale biografico intimo e drammatico in un percorso personale di ricerca performativa: la traccia audio originale di un’esistenza spezzata, come il testamento beckettiano di Krapp, ispira una partitura fisica, gestuale, coreografica in un efficace gioco tra due ambiti scenici che si rivelano anche esistenziali”.
«Gianni è lo zio con problemi maniaco-depressivi che mi faceva paura», è una catabasi nella psicosi. La protagonista, tra un’ultima sigaretta e l’altra, è eccellente nella sua spersonalizzazione, nella capacità di vestire le scarpe (tante, tantissime) di un altro da sé: pur avvolta in un lungo abito color lillà, appare al pubblico come ipostasi della devianza, specchio di un omone di mezz’età.
Da un matto a un mattatore. Stiamo parlando de “Il Matto ovvero io non sono Stato” di Massimiliano Lozzi (produzione Mercanti di Storie): un lavoro – invero e purtroppo – meno incisivo rispetto ai precedenti, che mette in scena (o meglio, sotto processo) gli atti dell’omicidio Pinelli, il quarantenne anarchico defenestrato il 15 dicembre 1969 dai locali della Questura di Milano. Quella che poteva diventare un’originale querelle tra intrattenimento e teatro civile non sembra però raggiungere i risultati auspicati.
Si ride molto, dall’inizio alla fine, e questo perché Loizzi è bravo e sagace. Ma lo spettacolo resta un interrogativo (eccessivamente) irrisolto. Un po’ come il caso del ferroviere, d’altronde. Ci esorta sì – una volta di più – a prendere coscienza delle assurdità del nostro Stato, ma il tutto resta privo di una coordinata chiara. Che cosa riportiamo davvero con noi, a casa?
Restiamo un po’ in pausa di riflessione, insomma, come il John di “Cock”. Lo spettacolo, andato in scena a fine gennaio, orfano del taumaturgico volto televisivo di Margot Sikabonyi, si arricchisce di una brava Sara Putignano, in scena con Fabrizio Falco, Enrico Di Troia e Jacopo Venturiero, diretti da Silvio Peroni.
– Io penso che siamo due individui completamente diversi. […] Viviamo sotto lo stesso tetto, la sera andiamo a letto insieme, scopiamo, parliamo, mangiamo insieme e tutto il resto. Ma secondo me siamo due persone completamente diverse, cioè tu sei come le uova e io come…
– Il formaggio?
Il geniale testo del giovane Mike Bartlett – tradotto per l’occasione da Noemi Abe – diventa un campo di forze, un ring nel quale si affrontano match decisivi per la propria sessualità. Una girandola di discorsi che hanno una matrice comune: la difficoltà della scelta. Decidere è doloroso, perché significa – già etimologicamente – abbandonare qualcosa. Tagliar via qualcuno.
E di abbandono tratta, in un certo senso, anche l’amabile “Vecchio principe” di César Brie, un piccolo gioiellino messo in scena da Daniele Cavone Felicioni, Manuela De Meo e Pietro Traldi. Uno spettacolo di una delicatezza rara, come quel fiore che il Vecchio/Cavone Felicioni ha abbandonato su una stella. Antoine/Traldi, l’infermiere, lo accompagna in questo suo viaggio tra il biografico e l’onirico, alternando atteggiamenti contrastanti: è colui che osserva qualcuno che non capisce ancora del tutto.
Antoine, in fondo, siamo un po’ tutti noi. Davvero notevole la performance di Manuela De Meo che, nei panni del primario di corsia, intenta a dare ordini che nessuno rispetta, ridacchia fiera, diventando esilarante.
Di “Primavera sacra” della piattaforma CO.H aveva parlato ampiamente Anthea Grassano, e alla sua recensione quindi vi rimandiamo, per correre veloci verso “Le fumatrici di pecore”.
Prima volta a Torino per la pièce di Abbondanza/Bertoni. Prima volta che Patrizia Birolo, protagonista in scena insieme ad Antonella Bertoni, si ritrova di fronte al pubblico della “sua” città. Patrizia è un’interprete che Michele Abbondanza definisce «fuori dall’ordinario», in quanto «portatrice sana di una diversa abilità».
Abbondanza e Bertoni hanno conosciuto Patrizia in occasione di una serie di incontri-laboratorio tenuti per la compagnia teatrale La Girandola, che lavora sul territorio torinese con persone diversamente abili. Nel guardare Patrizia lavorare, Antonella Bertoni coglie «quanto un corpo e una persona possano esprimere un umore ‘ballerino’. Mi è parso di intravedere la sua vita essere una mancanza della sua vita, e questo ha causato in me disorientamento».
Da lì la decisione, nel 2010, di scrivere una intensa partitura per lei fatta di brevi sequenze, di relazioni, di tanta ironia e di una spontaneità che affiora parlando di attualità e gossip, o cantando Tiziano Ferro a squarciagola, con quella voglia d’esprimere ciò che si ha dentro «senza timore di nessuno», afferma la stessa Patrizia, inseguendo una ebbrezza folle – visto che oggi possiamo riappropriarci di questo termine privato di pericolose derive –, un’euforia… da “fumatrici di pecore”.
Schegge di teatro dunque che, in un modo o nell’altro, esplorano il magma nascosto nell’intimo di ciascuno, proiettandolo verso all’esterno. Come già si è ripetuto altrove: In for Out. Si producono relazioni: fugaci alla stazione, violente in commissariato, confuse dentro casa, parossistiche in corsia. Si cerca insomma di abbattere – in maniera estremamente attuale – quei “fili spinati” e quelle “schegge di vetro sui muri di cinta” che, stando al filosofo Anacleto Verrecchia, la direbbero “molto lunga sui rapporti umani”.
Domenica 26 marzo Antonella Delli Gatti, diretta da Luca Bollero, proporrà al pubblico “Il mare a cavallo”, una produzione Teatro Contesto, dedicato all’esemplare vicenda di Felicia Bartolotta, madre di quel Peppino strappatole dalla mafia il 9 maggio 1978. Una storia di dolore e di carnefici; di tenacia e di giustizia.
Nelle settimane successive seguiranno altri appuntamenti da non perdere: a partire da “Antropolaroid” di Tindaro Granata (fresco di premio Ubu, l’8 e il 9 aprile) a “Homologia” di DispensaBarzotti, con Rocco Manfredi e Riccardo Reina per la regia di Alessandra Ventrella (il 22 e 23 aprile, altro Premio Scenario 2015), “L’ombra della sera” (Teatropersona, il 6 e 7 maggio) e, dulcis in fundo, “La sirenetta” di Eco di Fondo, il 13 e 14 maggio, a chiudere con un ulteriore interessante spettacolo, dalla tematica assai attuale, la stagione 16/17 di Schegge.