Voices&Borders: nuove voci nella Milano multietnica

The Migrant School of Bodies|Imma di Aterballetto
The Migrant School of Bodies|Imma di Aterballetto

Possono la danza, la musica e l’arte in genere portare ad un alto livello la discussione su temi di stringente attualità laddove il dibattito politico e sociale si sposta sempre più verso il basso?
Abbraccia questa sfida il neonato festival multiculturale di danza, musica e immagini Voices&Borders, promosso dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli a metà luglio a Milano.
Artisti internazionali come Chris Watson, Ariella Vidach, ZimmerFrei, Carlos Casas… hanno animato quattro pomeriggi e serate con workshop, spettacoli e performance affrontando rispettivamente cinque aspetti della contemporaneità: acqua, democrazia, ribellione, città e diversità.

Ad aprire la rassegna è stato Chris Watson, musicista e sound recordist, che ha proposto al pubblico milanese un laboratorio pomeridiano gratuito, volto a carpire e registrare i suoni del parco Sempione, e in serata una sound performance, “Oceanus”, esito di un progetto proposto da Teho Teardo, un collage di registrazioni subacquee raccolte dall’artista in tutti i mari del mondo.

“Oceanus” è un viaggio introspettivo, emozionale, da fare ad occhi chiusi. L’atmosfera è perfetta: calma, silenziosa, di sfondo una luce soffusa. Il buio della sala nella percezione degli spettatori assume così le dimensioni del fondo di un oceano da cui emergono suoni primordiali, echi di una natura disarmata, semplice eppure maestosa. Il silenzio che accompagna il suono è carico di poesia. Il rumore delle onde sugli scogli, lo sciabordio del mare, il crepitare frequente e prolungato dei coralli rendono inutile la prosa. Tutto è poesia ma allo stesso tempo tutto è chiaro, nitido, pulito.

Dopo la curiosità iniziale verso un universo sonoro così distante dalla quotidianità contemporanea, fatta spesso di rumori o di suoni veloci, ritmati ma algidi, la dimensione semplice ed ancestrale dei suoni del mare conduce lo spettatore ad uno stato di abbandono, ad una semicoscienza capace di dilatare le coordinate spazio temporali fino a renderle evanescenti.

Se la musica conduce ad un viaggio sonoro subacqueo, in Voices&Borders il mondo della danza racconta ciò che succede sulla terraferma a chi viene dal mare in “The Migrant School of Bodies”, diretto dalla coreografa e danzatrice Ariella Vidach e dal regista Claudio Prati.
Un gruppo di performer, prevalentemente donne immigrate di seconda generazione, approdate a Milano dalle sponde Sud del Mediterraneo o dall’Europa dell’Est, si confronta sul rapporto tra mondi culturali differenti, sul concetto di confine e sulla ritualità come momento di incontro e dialogo interculturale.
La loro danza è ritmata, vivace, a tratti tribale. I movimenti si stagliano naturali nello sfondo candido ed essenziale della sala, esaltati da una fisicità spontanea e da ritmi ancestrali.
Otto danzatori (Bintou Ouattara, Mama Tenee Koulibaly, Nadege Okou, Célestine Clémence Ngantonga Ndzana, Joy Ediri, Leonor Navas Riehar) si muovono in gruppo, ritagliandosi brevi momenti per esibizioni solitarie.
Al centro dei racconti di due giovani donne africane c’è anche il rapporto con il cibo. Nella prima testimonianza emerge un legame quasi pagano con il cibo, il cui consumo esagerato diventa un modo per onorare le feste a scapito di una sopravvivenza non sempre facile. Nel secondo il cibo diventa strumento per infliggere umiliazione in un contesto di miseria spirituale ancor più che materiale.
La danza diventa così strumento di difesa della memoria, del proprio passato.

A performance conclusa, un video (a cura di Alberto Danieli e Martina Rosa) mostra alcune fasi dell’allestimento dello spettacolo, esito di un percorso laboratoriale e artistico sviluppato all’interno di MigrArti che ha coinvolto artisti che hanno vissuto in prima persona l’esperienza della migrazione: la turco-tedesca Nezaket Ekici, formatasi con Marina Abramovic, il musicista Mike Cooper, ispirato alle tesi del compositore britannico Cornelius Cardew e il coreografo camerunense Lazare Ohandja.

Un lungo e denso mese a Marrakech è invece servito a Teresa Noronha Feio e a Gabriele Licchelli per scoprire il frenetico movimento di una città e della sua storia. L’esplorazione ha condotto alla riscoperta di un antico mito, quello di Aisha Kandisha, donna leggendaria costretta ad avere zampe di cammello per essersi rifiutata di portare l’abito vedovile.
Noronha e Feio raccolgono testimonianze dagli autoctoni, registrando video che verranno poi proiettati nella performance “Imma – Immagini mistiche del Marocco di Aisha”, e chiedendo ai cittadini di raccontare le loro esperienze con la misteriosa donna. Viene chiesto loro di indirizzare la loro storia all’interno di un vaso: ed è infatti proprio il vaso il secondo protagonista, insieme ad Aisha, dello spettacolo prodotto da Aterballetto e qui presentato in prima nazionale.

In un’alternanza di racconti (Gabriele Licchelli, Saverio Bari), filmati e movimenti danzati (Teresa Noronha Feio), il vaso viene condotto per il rettangolo bianco che funge da palco, e offerto al pubblico, che lo passa di mano in mano invitato ad ascoltare il rumore dell’acqua che vi è all’interno. Il passaggio crea un senso di comunità, unendo la platea nel mistero ineffabile di una mitologia che non ci appartiene, ma di cui diveniamo magicamente partecipi.

Imma di Aterballetto
Imma di Aterballetto

Il workshop proposto in occasione del festival dal collettivo ZimmerFrei e la visione di “La Beuté c’est ta tête” sono due esperienze estremamente legate.
Anna De Manicor conduce un nutrito gruppo di persone attraverso una semplice passeggiata nella multietnica via Paolo Sarpi. L’obiettivo è condividere il sapere raccolto in anni di ricerca, per un collettivo che spazia da creare documentari a installazioni e performance. Il loro approccio alla realtà è sensoriale: indagano e cercano di riprodurre un’esperienza senza filtri, restituendo uno spaccato di verità.
Anna De Manicor invita così i suoi ‘seguaci’ ad una serie di esercizi per affinare le proprie capacità percettive, soffermandosi sulla cattura di dettagli visivi e sonori, punto di partenza di ogni suo lavoro. Al termine del percorso, un interessante confronto sulle sensazioni individuali dei partecipanti dà vita alla testimonianza di un’artista insolita e interessante.

Un’esperienza che si rivela utile per poter cogliere a pieno la visione del film “La beuté c’est ta tête”, in cui ZimmerFrei tratteggia un ritratto spiazzante di un altro quartiere multietnico, quello di Noailles a Marsiglia. Tra povertà e situazioni al limite, che con difficoltà si potrebbero immaginare in un Paese come la Francia, emerge la dolce malinconia di un’umanità che ancora resiste, oltre ogni bruttura.
L’apparente assenza di regia, l’immediatezza della ripresa, benché frutto di un sapiente e attento uso della macchina (e di una profonda conoscenza della realtà umana), rende la visione vibrante, uno schiaffo che risveglia. E di cui sembra abbiamo ancora un gran bisogno.

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