Azione 18/19. La costruzione di un’apertura con Biagio Caravano

Un momento del laboratorio (photo: Simona Cappellini)|
Un momento del laboratorio (photo: Simona Cappellini)|(photo: Simona Cappellini)

Comporre è ideare luoghi e relazioni che ancora non esistono.
Questo sembra essere il concetto alla base del terzo appuntamento del progetto Azione 2018-2019, condotto da Biagio Caravano (MK) nello Spazio K di Kinkaleri, a Prato.

Dopo il primo modulo con Raffaella Giordano, nel secondo incontro con Simona Bucci (con la partecipazione della sua assistente Françoise Parlanti), gli allievi hanno avuto modo di osservare la danza dal punto di vista antropologico, per finire con i fondamenti dell’analisi del movimento su cui si fonda la Tecnica Nikolais, considerata da Simona Bucci non un punto di arrivo, ma di partenza.

Ogni laboratorio (il prossimo sarà con Cristina Rizzo dall’8 al 13 ottobre) rappresenta per gli allievi un intenso impegno fisico, dove per circa una settimana i ragazzi vengono messi alla prova, incamerano informazioni, osservano e si fanno osservare, ogni volta da una persona diversa. Tutto il materiale acquisito più o meno consapevolmente verrà rielaborato nel tempo dal corpo e dalla memoria del corpo, che riproporrà l’esperienza vissuta nel momento più opportuno. E’ come un processo produttivo, dove in ogni appuntamento si vede solo una delle componenti che andranno a comporre il prodotto finito.

Con Biagio Caravano gli allievi hanno affrontato la connessione del corpo in rapporto allo spazio e agli altri. Tutta l’informazione che ricevono dovrebbe essere trasferita al loro corpo senza il filtro delle emozioni.

Prima di iniziare la giornata Caravano ci racconta il lavoro svolto nei giorni precedenti: “Sono partito facendo fare a tutti un solo perché volevo far capire anzitutto ai ragazzi l’idea di solitudine, così da poter tornare oggi a fare di nuovo dei solo, quindi ad affrontare la solitudine con una nuova consapevolezza, e con tutta una serie di informazioni, dopo il percorso di questi giorni in cui li ho fatti lavorare sempre insieme. Nel momento in cui abiti un luogo, così come abbiamo fatto in questi giorni, lasci delle tracce nello spazio, contribuisci a costruire nello spazio delle cose che rimangono e che diventano la riconoscibilità di quell’ambiente. Per cui adesso sono carichi di informazioni che hanno preso dal lavoro con gli altri, attraverso le azioni che si sono susseguite”.

Improvvisazione, creazione individuale e collettiva, ricerca stilistica. Sono molti gli aspetti della composizione coreografica. Hai delle priorità? “La danza esiste nel momento in cui permette che un’altra danza esista al proprio fianco. La cosa principale che mi preme più del corpo è che costruisce l’azione e compone con tutto quello che l’ambiente produce e innesca: il corpo dell’altro, l’oggetto scenico, la musica; quello su cui lavoro con i ragazzi è proprio il tentativo di costruire un fuori, spostando la tensione e l’attenzione da dentro a tutto ciò che c’è accanto a te o lontano da te. E’ così che si forma un luogo di ricognizione. Quando lo spettatore viene a vedere una performance non guarda solo te, ma tutto un luogo che si è costruito. Per far questo ho eliminato qualsiasi regola, per aiutarli a spostare l’attenzione, a renderli più disponibili all’apertura. Un danzatore ha già un corpo informato ed è impossibile togliergli l’influenza di tutta la pratica che lo ha formato. Però la puoi far entrare da un’altra porta. Quindi per me l’idea di non avere regole non è non relazionarsi con quello che ti appartiene, ma mettersi in completa apertura verso gli altri corpi”.

Biagio Caravano durante il workshop (photo: Simona Cappellini)
Biagio Caravano durante il workshop (photo: Simona Cappellini)

Inizia il lavoro, i ragazzi sono divisi in due gruppi. Vengono date indicazioni, come l’idea di spostare un oggetto nello spazio, per creare spazio dentro di loro e per espandere la propria materia verso l’altro. Caravano sottolinea come più che costruire qualcosa si tenti di lasciare che il corpo sia attraversato da qualcosa. Una parte del laboratorio dovrebbe essere dedicata alla teoria, ma anche la teoria sta nella pratica e il coreografo si inserisce direttamente durante le azioni con osservazioni o indicazioni ulteriori che rappresentano di fatto una parte teorica.

Accompagnati da una musica elettronica dal ritmo cadenzato si stabilisce una relazione con lo spazio dell’altro, e dallo spazio dentro si passa allo spazio fuori.

Dopo questa prima fase di lavoro di gruppo ogni allievo viene chiamato ad eseguire un solo di 8 minuti sulla stessa musica. I ragazzi si alternano, ognuno con la propria personalità e il proprio stile, ma da come si muovono nello spazio si capisce che è stato fatto un lavoro a questo riguardo. Anche se soli, lo spazio viene “riempito” interamente.

Una delle caratteristiche che emerge quando interrogo i ragazzi sulle eventuali difficoltà o aspetti che rimarcano durante questo percorso è che i coreografi con cui gli allievi si trovano a lavorare appartengono a compagnie, per cui ognuno ha una impostazione e un tipo di lavoro ben preciso, strutturato e molto diverso da quello degli altri, cosa che comporta un’apertura da parte dei ragazzi. Per ciascuno di loro ci saranno determinati aspetti di un coreografo o di un altro in cui si ritroveranno maggiormente. Ma in ogni caso le differenze comportano uno sforzo mentale, oltre che fisico.

Nel farsi guardare, osserva Caravano, è facile che il corpo cada in alcune trappole, e che il sentimento che ti accompagna mentre danzi diventi la tua danza, mentre si deve mantenere un po’ le distanze. Più le cose le allontani e più ti appartengono.
È stato fatto un grosso lavoro sull’insieme, ma si è anche cercato di individuare delle competenze tecniche, per andare a togliere, in modo da permettere al corpo di costruire posturalmente una condizione.

È attraverso la postura che si crea la condizione per farsi guardare. Non è uno stato mentale, ma una preparazione fisica vera e propria.

Affronto poi il rapporto con la musica, perché sia tra il primo e il secondo gruppo, che nel lavoro individuale, gli approcci erano diversi.
I ragazzi mi fanno notare che la musica in realtà li influenza fino a un certo punto, perché la loro attenzione in quel momento è altrove, sulla relazione con lo spazio e con gli altri. Qualcuno pensa che quel tipo di musica aiuti il tipo di lavoro che devono fare, perché anziché accompagnare il movimento permette di creare il vuoto necessario a distaccarsi emotivamente. Qualcun altro sottolinea come sia lui a decidere come gestire la musica, se farsi trascinare o meno, e nel momento in cui la musica spinge può decidere di andarci contro fermandosi, altrimenti rischi di entrare in un vortice che ti fa perdere il controllo.

Quali sono le differenze tra il lavoro collettivo e quello individuale? “Da solo c’è sicuramente una maggiore energia, ti senti completamente messo in gioco – spiega una delle ragazze – Dai importanza a tutto l’insieme delle azioni perché essendo da solo credi che abbia importanza solo il culmine, il livello massimo dell’energia. Mentre quando sei con gli altri elabori tutte quelle variazioni di gamma dell’energia e delle azioni perché il punto massimo sarà composto dal totale di tutti. Questo ti dà anche più serenità, meno ansia rispetto al lavoro individuale”.

“In realtà nella solitudine, quando vengono fuori tutte le difficoltà rispetto al lavoro collettivo, dovresti subito farci conti – è il pensiero di Biagio Caravano – Non devi risolverlo per cercare di arginare il problema, ma ti ci devi buttare dentro, perché non ti devi difendere da nulla. È quella tensione, quella forza che si produce all’interno di quel campo, la materia su cui lavorare. È facile costruire una cosa coreograficamente interessante, ma poi l’esperienza la deve fare il corpo”.

Che consiglio darebbe Caravano ad un giovane che sta iniziando questo percorso? “Ho avuto la fortuna di lavorare con un gruppo per tanti anni, e sicuramente avevamo più possibilità di prenderci un tempo e di lavorare su una cosa rispetto al teatro oggi, che lavora più sull’urgenza, e che quindi non ti permette. E’ completamente cambiato il pensiero rispetto al corpo e rispetto all’azione che devi mettere in campo per far sì che il corpo funzioni. Sta qui la differenza abissale tra quello che è stato e quello che oggi è. Anche perché adesso è molto più facile stare in scena rispetto a prima, perché ci sono più circuiti, più possibilità. L’unica cosa che mi viene quindi da dire è di essere sempre onesti e di non pensare di risolvere tutto portando a sé il movimento. Credo che l’incontro con l’altro sia la cosa migliore che possa esistere, e anche la più interessante. È un processo che si innesca tra le cose, non dentro di te”.

AZIONE_2018/2019
Aldes/Cab 008/Compagnia Simona Bucci/Company Blu/KLm-Kinkaleri, Le Supplici, mk/Sosta Palmizi
Progetto per una rete stabile di insegnamento sul territorio toscano
Con il sostegno di MiBAC e di SIAE
nell’ambito dell’iniziativa “Sillumina – Copia privata per i giovani, per la cultura”

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