Biennale College – Danza: chi ha paura del futuro?

Invenzioni - coreografia di Michele Di Stefano
Invenzioni - coreografia di Michele Di Stefano
Invenzioni – coreografia di Michele Di Stefano (photo: Akiko Miyake)
Ripercorrendo la molteplicità delle esperienze agglutinate attorno a questa edizione di Biennale College – Danza, affidata a Virgilio Sieni, peraltro appena insignito del titolo di Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres, non sono pochi gli aspetti su cui ci si potrebbe soffermare per cercare di produrre un pensiero, stabilire delle connessioni, richiamare delle idee.

Si potrebbe, ad esempio, sostare dinanzi alla potenza di un lavoro diretto e intelligente come quello di Michele di Stefano. Esito della fusione di “Invenzioni”, creato per i giovani interpreti della Biennale College, e di “Impressions d’Afrique”, ideato per i danzatori della compagnia, esso  appare come una vera e propria oggettivazione del concetto di “trasmissione”, tutto impregnato del fascino sapiente di corpi che – letteralmente – si trasmettono impulsi di movimento l’un l’altro, rendendo l’azione danzata un coagularsi costante di energia, un flusso consapevolmente e al tempo stesso imprevedibilmente orientato.

O, ancora, ci si potrebbe concedere il lusso di divagare sulla poesia di “Untitled_death in Venice version” di Alessandro Sciarroni (una delle poche opere, tra quelle presentate, del tutto affidata a professionisti), per cercare di restituire la sospensione emotiva creata da questa sorta di “danza delle clavette”, in cui quattro giocolieri fanno volteggiare i propri attrezzi del mestiere trasformandoli quasi in una metafora dell’essere umano: sempre sull’orlo dello schianto ma, tra una caduta e l’altra, capace di evoluzioni straordinarie.

Non sarebbe privo di senso, poi, interrogarsi su ciò che non ha funzionato, sulla gratuità con cui certi spazi cittadini – tutti di per sé carichi di enorme fascino – sono stati sfruttati da alcuni degli artisti chiamati ad occuparli, o riconoscere la debolezza di molte delle opere legate al progetto “Prima danza”, in cui la carenza maggiore sembrava essere proprio quella dell’originalità, con una conseguente sensazione di “già visto”.

Ma la nostra attenzione si dirige altrove, verso quella che continua ad apparire come una vera sorpresa.
Perché, quando si vede qualcosa di nuovo, si ha spesso voglia di raccontarlo. E, come di frequente accade, le novità maggiori arrivano da dove non te le aspetti.
In questo caso a stupire, lasciando senza parole, sono i ragazzini – tra i 10 e i 15 anni – coinvolti nelle tre diverse articolazioni del progetto “Vita Nova”: “Vita Nova_Puglia”, “Vita Nova_Toscana” e “Vita Nova_Veneto”, con le coreografie, le prime due di Virgilio Sieni e la terza dell’israeliano Itamar Serussi.

Qui il linguaggio di movimento (perfettamente riconoscibile) dei due coreografi riesce a penetrare nei giovani corpi degli interpreti, provocando in essi una trasformazione tanto evidente quanto difficile da raccontare.
Il tratto che, tuttavia, emana con maggiore potenza da questi lavori consiste in un senso di frenetico rigore, di concentrazione straordinariamente serena ed emotivamente densa: vi si percepisce, cioè, tutta la serietà e la tensione del bambino che, nonostante conosca, com’è evidente, il codice della danza accademica (nel quale probabilmente si muove già con una certa facilità), si confronta coraggiosamente con un’“altra” danza, assumendo con entusiasmo la responsabilità dell’incontro, per uscirne immancabilmente più maturo e, soprattutto, sempre più capace di accogliere stimoli e sollecitazioni.
A impressionare, in sostanza, è il dispiegarsi, in questi giovanissimi interpreti, di potenzialità enormemente ramificate, che emergono non attraverso l’abbandono alla casualità di un’azione senza regole, né tantomeno mediante il ricorso a codici brutalizzati da un estetismo gratuito, ma, al contrario, ci si accorge di come sia proprio la guida ferma e sensibile dei coreografi a rendere possibile questo cammino di maturazione, innanzitutto corporea.

Se non fosse un termine così tristemente retorico e drammaticamente fuori moda, che rischierebbe quindi di sminuire la meraviglia di questo percorso, chiameremmo in causa il “futuro”, affermando che questi bambini sono riusciti, anche se solo per pochi minuti, a farcelo immaginare un po’ più lieve.
 

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