Danae Festival: la centralità del corpo e lo sguardo dello spettatore

Raffaella Giordano in Celeste (Ph. Maurizio Anderlini)|Trigger con Annamaria Ajmone (Ph. Michela Di Savino)
Raffaella Giordano in Celeste (Ph. Maurizio Anderlini)|Trigger con Annamaria Ajmone (Ph. Michela Di Savino)

La nudità dell’atto performativo. La forza del gesto come condivisione tra attore e spettatore, nel superamento di ruoli e schemi. A distinguere la XX edizione di Danae Festival è la purezza del contagio, l’istintività scevra da intellettualismi. Danae 2018 è caos demiurgico, attraversamento di generi e linguaggi. Filo conduttore è la capacità visionaria di una scena che non si riduce al palco, ma catapulta in una dimensione senza coordinate spaziotemporali. La centralità è nel corpo come infinita possibilità espressiva, latrice di una ricerca indefinita, senza pretendere di esaurire l’azione scenica in un gesto perentorio o univoco.

Consapevoli di non essere consapevoli: la performance è solo scintilla, suggestione che varca l’oggettività per agganciarsi ai vissuti individuali, alle percezioni soggettive dello spettatore.
Ha senso solo fino a un certo punto interrogarsi su una chiave ermeneutica dei lavori proposti. Ciascuno di essi si sedimenta nell’osservatore che li raccoglie e rimodella in conformità a stati d’animo mutevoli.

Le mille sfaccettature dell’atto, dell’artista e dello spettatore. Una palingenesi senza approdo. Non è un caso che l’abbrivo al festival sia arrivato da “L’uomo che cammina” di Dom-: un percorso esplorativo nella Milano nascosta, dove la simbiosi tra performer, spettatori/camminatori e paesaggio urbano si dilata in uno spazio ineffabile.

Come in “Celeste” di Raffaella Giordano, al Teatro Out Off. Immersa nell’invocazione di una natura primordiale, la danzatrice in assolo retrocede in un “non luogo” disantropizzato. Le mani si affaccendano in una preghiera disarticolata. La bellezza, la vita stessa, sembra sfuggire. Ampi giri, raggi in abito verde, braccia protese come rami d’albero, riversano sullo spettatore il bisogno d’armonia, in un anelito a liberarsi, tra silenzi e attese, dal pulviscolo delle parole.

Agisce dentro un perimetro umano triangolare Annamaria Ajmone, sperduta tra calchi di statue nella Sala Napoleonica dell’Accademia di Brera. Il suo “Trigger” si sedimenta in concomitanza di un suono dilatato, attraverso paesaggi acustici e sonori espansi. È una danza ipercinetica, meccanica, fatta di movimenti centrifughi. Gli spettatori sono il limes che consente alla performance di non disperdersi o frantumarsi.

Trigger con Annamaria Ajmone (Ph. Michela Di Savino)
Trigger con Annamaria Ajmone (Ph. Michela Di Savino)

Uno sguardo estetico, estatico, è quello di Steve Cohen. In “Put your heart under your feet… and walk!” un uomo-ballerina si approccia alla scena in punta di piedi, su calzari vertiginosi attaccati a piccole bare verticali. Questa figura fantasmagorica si trascina in equilibrio precario con l’aiuto di due trampoli, accompagnata dalla propria ombra. Essa avanza dentro un cimitero di scarpe. L’amore si protende in un orizzonte di morte. È corrispondenza di parole sfiatate nel silenzio. Sequenze video distopiche e a un tempo raffinatissime, scene splatter a tutto schermo di animali grondanti sangue, danno la misura dell’anelito vitale, del delirante istinto di sopravvivenza che si accompagna all’assenza di chi ci è caro oltre misura. Eros e thanatos sublimano nella kalokagathìa, che nella cultura greca indica il valore assoluto di una bellezza morale. Il lavoro di Cohen è sublimazione scioccante, esaltazione della percezione sensoriale che fagocita l’amore, istante eterno perché effimero.

“Euforia” di Habillé d’eau è una sinergia di corpi che abitano lo spazio con precisione millimetrica. La vita stessa dei performer (Alessandra Cristiani, Eleonora Chiocchini e Valerio Sirna) costruisce il corpo e in definitiva il lavoro.
Nell’ideazione della coreografa Silvia Rampelli le figure non sono interpreti, ma materia viva e sonora di un teatro «contemporaneo in quanto inattuale» (Alessandro Pontremoli) che vive nella percezione degli spettatori. I danzatori sono il loro corpo solitario, articolazione visibile e dicibile. Le domande scaturiscono in un’interazione continua con suono, ombra, luce, silenzio. Permea “Euforia” la spontaneità dell’agire e dell’essere, la vita che si manifesta nel mascheramento o nella nudità, in una perenne domanda di senso.

Did Studio, alla Fabbrica del Vapore, è lo spazio estraniante per tre performance agili e pensose. In “Bau#2”, Barbara Berti compie un percorso arguto tra corpo e subconscio. Il suo è un dialogo istintivo con gli spettatori. Questa coreografia filosofica, multisensoriale, asseconda percezioni immediate. Si vale di espedienti surreali. Prova a uncinare il fluire del tempo e a catturare i legami sfuggenti tra corpo e mente, in un iter stravagante e goliardico.

In “Fire of unknown origin”, Monica Gentile e Marcela Giesche giocano, con l’aiuto di lunghi listelli di legno, una sorta di gigantesca partita di Shangai. Tutto è caos. La coppia giostra tra collasso e ordine, scompaginazione e creazione, in un perpetuo attrito di opposti. È un processo demiurgico instancabile, preludio all’armonia con se stessi e con lo spazio circostante. Pars destruens e pars construens sono in dialettica. Il disordine non è che brainstorming creativo finalizzato alla catarsi.

Un inno all’euritmia, un divertente gioco di coppia è “Sing the positions”, spettacolo di danza con Ioannis Mandafounis e Manon Parent. Suoni distorti, vocalizzi, gorgheggi assecondano una performance istrionica. I due cantanti-danzatori, come Paolo e Francesca nell’Inferno dantesco, sono trascinati da un vortice sonoro. Viaggiano in sintonia, immersi in un fitness giocoso. Flauto, violino, armonica, un campanello o un fischietto, percussioni leziose, emissioni gutturali, sibili vocali sono la bizzarra colonna sonora che accompagna questi corpi affiatati. “Sing the positions” è una danza esagitata, che non spezza mai l’armonia di sguardi e di gesti.

È invece una danza monocroma “Love souvenir” di Francesco Marilungo: un raffinato gioco d’ombre, suoni e bisbigli sulla fatica di essere e di vivere, sull’impossibilità di manifestarsi nella pienezza. Un persistente svolazzare di corvi tassidermizzati accompagna come nero presagio un corpo rannicchiato, un’identità brancolante. Bisbigli, voci, un ticchettio di pioggia incitano a definirsi. Il lavoro di Marilungo è un tripudio di capelli sciorinati come braccia verso il cielo. “Love souvenir” esprime lo scavo e il logorio necessari a un corpo per uscire dalla propria pelle ed entrare in un altro corpo, in una transizione che diventa espiazione.

Ed espiatorio, a distanza di vent’anni, rimane “Al presente” di Danio Manfredini. L’alienazione mentale è metafora di un male di vivere più ampio. La performance allucinata, disperata, non smarrisce il contatto con la poesia. Scopriamo una volta di più il nesso tra follia e creatività: la ragione collassa, le regole deflagrano, nasce l’arte.
La poesia della diversità di Manfredini, in sintonia con l’anima caleidoscopica del Teatro delle Moire, è il coronamento di Danae XX, quest’anno caratterizzato da una coesione nella ricerca e da un livello qualitativo mediamente alto assai rari da trovare in un festival multidisciplinare.

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