Ibsen Women. Juni Dahr e la libertà negata

Ibsen Women – Put an Eagle in a Cage
Ibsen Women – Put an Eagle in a Cage
Ibsen Women – Put an Eagle in a Cage (photo: unive.it)

Si racconta che nel 1906 a Cristiana, l’antica Oslo, Eleonora Duse rimase per ore in piedi, avvolta nel suo scialle, a guardare la finestra della casa di Henrik Ibsen, costretto a letto per malattia, con la speranza di scorgere solo per un attimo, oltre le tende, il profilo dell’autore di quelle opere che tanto amava e che per prima aveva rappresentato in Italia.

L’attrice norvegese Juni Dahr, per 12 anni nella compagnia del Teatro Nazionale di Bergen, parte da questa immagine silenziosa come la neve, che  per un attimo fa pensare a un quadro di Hammershoi, per raccontare l’universo “Lei” ibseniano.
Poi scosta le tende, ma non troppo. Rimane lo spazio “interno”, un cromatismo ridotto al minimo e sei figure di donne: Hilde, Hedda, Nora, la signora Alving, Ellida, Hjordis. “Ibsen Women”. Accompagnate dal malinconico respiro del flauto di Chris Poole che disegna l’esterno scandinavo: il paese dei fiordi, dei boschi di conifere, del mare agitato, del vento gelido tra gli isolotti scogliosi.

Lo spettacolo (Le donne di Ibsen – Metti un’aquila in gabbia) ospitato in prima nazionale al Teatro Ca’ Foscari di Venezia – che quest’anno dedica una parte della programmazione al teatro internazionale – è stato presentato per la prima volta nel 1989 al convegno internazionale su Ibsen all’Università di Yale.
Sono brevi estratti, sei monologhi recitati in inglese, con alcune incursioni della lingua norvegese, attraverso i quali l’attrice rappresenta i ritratti delle principali eroine dell’autore ottocentesco, iniziatore della drammaturgia moderna, che ha reso i suoi drammi luoghi fisici e spazi di riflessione critica ed esistenziale.

Judi Dahr rende vivace lo sguardo di ogni personaggio, accenna e accenta le forme di pensiero, i desideri e alcune debolezze: la troppa immaginazione, la disperazione vendicativa, il carattere impulsivo e selvaggio. Un percorso a quadri nella profondità di anime imprigionate da vincoli e false certezze, nostalgiche della libertà, che quindi faticano ad adattarsi più di altre alla menzogna sociale, alla dipendenza affettiva, all’illusione vitale; ma anche forti e desiderose di trovare una via d’uscita da trame di fili, gancetti e ricami, che certo le rende belle, longilinee, perfette, ma fino a stringerle, soffocarle, bloccarle, incatenarle; come quei bei corsetti alla moda nascosti sotto gli abiti, che limitavano la circonferenza della “vita”, che solo un uomo poteva poi circondare con le mani.

“Put an eagle in a cage and it will bite the bars whether they are of iron or gold” (Metti un’aquila in gabbia e morderà le sbarre, siano esse di ferro o d’oro) afferma Hjordis in “I guerrieri di Helgeland”.
Le figure-donne di Ibsen, che l’attrice norvegese interpreta da tanti anni, sono personalità in evoluzione, diversissime tra loro, che sebbene appartengono ad un “teatro di salotto”, fotografano e rimandano sempiterne “passioni vitali”, tradimenti, conflitti interni ed esterni, in continuo gioco fra tragico e comico, nella sempre attuale antitesi tra l’essere e il parere.

Ibsen Women Put an Eagle in a Cage
ideato, diretto e interpretato da Juni Dahr
musiche composte e eseguite da Chris Poole
costumi: Inger Derlick, Juni Dahr
disegno luci: Aimee Malthe Harnes, Marianne Thallaug Wedset
assistenti alla regia: Aimee Malthe Harnes, Marketa Kimbrell
foto: Marianne Thallaug Wedset
produzione: Visjoner Teater
durata 50’
applausi del pubblico: 1’

Visto a Venezia, Teatro Ca’ Foscari, il 9 novembre 2011

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