MDLSX: biscottino allo spettatore? Una visione altra sui Motus

Silvia Calderoni
Silvia Calderoni, protagonista di MDLSX (photo: Ilenia Caleo)
Silvia Calderoni, protagonista di MDLSX (photo: Ilenia Caleo)

Short Theatre, il festival romano diretto da Fabrizio Arcuri, con questa edizione soffia su dieci candeline: ancora una volta ha il grande merito di aprire la stagione teatrale della capitale (anche se, formalmente, chiude l’Estate Romana 2015), portando un cartellone vario, attento alle contaminazioni dei linguaggi, di vocazione europea.

Fino al 13 settembre sta animando e animerà gli spazi della Pelanda, del Teatro India e, novità di quest’anno, della Biblioteca Vallicelliana: alla meraviglia del salone disegnato da Borromini proverà ad aggiungere la propria, il 13 settembre, la Socìetas Raffaello Sanzio. Un’idea senz’altro da premiare, quella di portare la drammaturgia contemporanea e il pubblico teatrale in uno spazio di grande prestigio storico e istituzionale, ma spesso conosciuto più dagli specialisti o dai turisti stranieri che dai romani.  
Entriamo nel festival. A volte l’intensità quotidiana dei programmi costringe a maratone teatrali dagli esiti insondabili, senza un attimo di pausa: per cui nello spettacolo delle 23, magari il sesto consecutivo della giornata, ti guardi attorno in platea e non sai se dietro alla più classica della palpebre calate non sia magari in corso un collasso cardiocircolatorio o una morte d’inedia («Con la cultura non si mangia», disse quel Ministro clamorosamente frainteso, reduce da un festival estivo).

L’aspetto positivo del vedere più pièce di seguito, però, è che l’impatto di ogni spettacolo si riverbera sugli altri: alcune scene sembrano parlarsi anche al di là dei confini del singolo lavoro, s’infittiscono i rimandi, si annodano significati e, a volte, uno spettacolo aiuta a spiegarne un altro, magari diversissimo: lo rischiara.

Nel primo giorno di Short Theatre 2015 abbiamo avuto la dimostrazione plastica di quest’effetto, seguendo prima “Vocazione” di Danio Manfredini e poi “MDLSX” dei Motus.

Del lavoro di Manfredini, che Krapp aveva recensito qui, rimane distinta nella mente la capacità di coniugare autobiografia ed impietosa ironia, e di cucire queste due componenti con una tecnica attorale sopraffina ma, soprattutto, asciutta: asciutta perfino nell’esagerazione, nell’iperbole. Manfredini, che sa bene di avere davanti – soprattutto a Roma –  un pubblico composto in vasta parte da addetti ai lavori e istrioni praticanti, sfoglia vocalmente l’almanacco retorico dell’attore, lo stereotipo culturale del teatro come resistenza alla catastrofe, il presunto lirismo di questo mestiere. Ne mostra la miseria, senza però deriderne la passione.

L’asciuttezza non è invece tra gli obiettivi di “MDLSX”, visto che fin dalle note di regia i Motus lo definiscono «ordigno sonoro, inno lisergico e solitario alla libertà di divenire».
In questo lavoro, dedicato al tema del gender e dell’intersessualità, il corpo che domina la scena è, come al solito, quello dell’attrice e performer Silvia Calderoni.

“MDLSX” si appoggia ai testi teorici di Judith Butler, al “Manifesto animalista” di Preciado e a quello di Donna Haraway, ma soprattutto al romanzo “Middlesex” di Jeffrey Eugenides (Premio Pulitzer nel 2003), che fa da architrave narrativa allo spettacolo.

Ai Motus, lo diciamo subito, va senz’altro il merito di aver costruito questo lavoro come una confessione, come testimonianza di singole vite, quando sarebbe stato facile, visti i tempi, puntare sulla polemica politica acida, sulla rivendicazione e sulla provocazione, col rischio però di scadere nel predicatorio. La drammaturgia (a cura di Daniela Nicolò e della stessa Calderoni) e la regia (Enrico Casagrande e la Nicolò) hanno un’intenzione evidente: scardinare fisicamente, nella mente degli spettatori, la fissità delle categorie di genere.

Lo fanno chiedendo al pubblico un’adesione emotiva alle azioni e ai mozziconi di testo letti dall’attrice in scena. E lo fanno anche creando una struttura teatrale che, né performance, né monologo, né dj-set, ma tutte e tre le cose assieme, vuole anch’essa posizionarsi un po’ più in là rispetto al mondo delle definizioni.

Ci riescono, in buona parte, perché la forza vitalistica e a volte primitiva che attraversa lo spettacolo lascia un segno in chi assiste, come il ricordo di una vita non vissuta, in cui M e F si confondono, invertono, scompaginano non per una scelta consapevole, ma come precipitato di una biologia complessa, contraddittoria. Cromosomi e ormoni che vanno in direzione diversa da quella in cui una famiglia ci ha educato, che ribaltano il soggetto in oggetto della sua stessa natura, mettendolo di fronte a dubbi devastanti: chi sono, al di là di come sono stato cresciuto, al di là dei peli che mi spuntano addosso, al di là del sesso scritto sulla cartella clinica o di cosa vorrebbe farmi il chirurgo per rendermi «socialmente accettabile»?

La Calderoni, agendo sulla strumentazione disposta sopra un lungo tavolo sul fondo scena, maneggia la sua playlist: i Rem, gli Air o gli Smashing Pumpkins come formula magica che schiude la porta dei suoi anni Ottanta e Novanta, con le felpe e le tute in acetato che l’attrice indosserà di seguito.
Un piccolo schermo sospeso, a forma di oblò, ospita le proiezioni di video di famiglia della Calderoni, che si sovrappongono alle immagini da lei riprese in diretta con una telecamerina puntata contro il proprio corpo. Ai momenti di lettura al microfono l’attrice intermezza, in uno schema fisso, movimenti furiosi al centro della scena, sopra un telo color argento: è il suo corpo androgino ad esprimere nelle azioni concrete la violenza delle tante forze interiori che fanno la nostra identità plurale.

La seconda parte dello spettacolo, più sbilanciata verso la narrazione in quanto più legata agli estratti dal romanzo “Middlesex”, è anche complessivamente più riuscita, sia per la tenuta del ritmo sia per l’uso dei testi: i momenti più drammatici delle vicende del protagonista Cal (alla nascita era Calliope, ma a quattordici anni scopre di essere uno pseudo-ermafrodito e cambia  nome, cominciando a vivere da uomo) sono contaminati da piccoli interventi autoriali, che inserendosi nella storia originale assottigliano il confine tra la confessione autobiografica e la finzionalità. Diverso rispetto al romanzo è, ad esempio, il racconto del ritorno a casa di Cal: nella versione dei Motus è accolto dal padre con severità, ma anche con affetto; mentre nel romanzo il padre è già morto e Cal torna amaramente in tempo solo per il suo funerale. E Cal è – inevitabile notarlo – l’abbreviazione non solo di Calliope, ma anche di Calderoni.

Quest’amalgama finzione-confessione è senz’altro il punto di maggior forza di “MDLSX”, con la prima che riesce ad essere al tempo stesso scudo e amplificatore della seconda; e di questa relazione tra falso e vero il momento più riuscito e commovente è il finale, quando nello schermo-oblò scorre una pellicola domestica dove una giovane Calderoni, con i capelli rasati, balla e canta assieme al padre.

L’applauso che chiude lo spettacolo è fragoroso. L’argomento, il coinvolgimento dell’attrice fanno sicuramente presa. Eppure da questo entusiasmo (che è anche dei critici, praticamente unanimi: Christian Raimo su Internazionale ha parlato di «spettacolo meraviglioso» e «rito miracoloso») mi sono sentito un passo fuori.

Non hanno certo aiutato alcune scelte di regia fini a sé stesse (l’uso di alcuni oggetti: glissiamo sulla torcia vaginale, ma come si spiega la bottiglietta d’acqua con una luce sul fondo, da cui la Calderoni si disseta con grande vistosità sul proscenio, salvo buttarla via e mai più riprenderla?), o un po’ prevedibili e illustrative (come quando la protagonista racconta di trovare finalmente il coraggio, durante la sua esibizione in una sorta di night, di aprire gli occhi sui suoi clienti-osservatori, e le luci di scena sottolineano il passaggio puntando sugli spettatori). Ma anche le scene di nudo che costellano l’ora e venti di spettacolo, per quanto prevedibili e magari inevitabili in un lavoro di questo tipo, sono parse sovrabbondanti e anche un po’ glam.

Sono note stonate che, pur non tarpando la spontaneità della drammaturgia, segnalano scarso rigore, come se la (fin troppo) dichiarata uscita da tutte le categorie artistiche e l’investimento sulla forza scenica della Calderoni potessero, infine, giustificare ogni incoerenza.
Eppure sono mende non così diverse da quelle in cui cadono a volte Ricci/Forte, con cui i critici mi sono sembrati ultimamente molto meno indulgenti: effetti collaterali del successo. Non che i Motus non ce l’abbiano, il successo: le frasi tratte dai testi e lette al microfono dalla Calderoni appaiono sullo schermo in inglese, e lo spettacolo è già proiettato (e precedentemente pensato) per la circuitazione internazionale.

Anche il testo, a forza di evocarli, è infine fermo agli anni Ottanta e Novanta: dovrebbe essere appurato, per dirne una, che il nostro io non è solo apollineo ma anche (o in prevalenza) dionisiaco, o che la nostra identità – di genere e non solo – non è singolare ma plurale, irrisolta.
L’urgenza intima di “MDLSX” non può essere un alibi per non fare qualche passo in più, con più attenzione allo stallo etico contemporaneo. Ad esempio: se siamo altro, come dicono le note di regia, dai confini del corpo, dal colore della pelle, da nazionalità e territorialità, se insieme a “MDLSX” usciamo da tutte le categorie perché «le vie della trasgressione sono infinite», cosa siamo allora? Siamo pura cultura, pura libertà? Pura autodeterminazione? Ma non sono proprio questi i presupposti dello spettrale individualismo post-moderno, tanto aperto da chiudersi nella sua non-identità?

Proprio alle soglie della crisi esistenziale, per fortuna, mi si chiariscono le idee pensando a “Vocazione” di Manfredini. Tanto Manfredini, mettendo in scena sé stesso, screpolava le certezze del pubblico e, strizzando l’occhiolino con certi ammiccamenti autoreferenziali, in realtà rivoltava la risata compiaciuta degli spettatori in pirandelliano sentimento del contrario, tanto i Motus mi sono sembrati dare al pubblico, in sostanza, il biscottino che il loro pubblico si aspettava. Un biscottino sincero, sì; ma con molto più mestiere, negli ingredienti, di quanto sembri al sapore.

MDLSX

con Silvia Calderoni
regia: Enrico Casagrande & Daniela Nicolò
drammaturgia: Daniela Nicolò & Silvia Calderoni
suoni: Enrico Casagrande in collaborazione con Paolo Baldini e Damiano Bagli
luce e video: Alessio Spirli
produzione: Elisa Bartolucci & Valentina Zangari
promozione in Italia: Sandra Angelini
distribuzione estera: Lisa Gilardino
produzione: Motus 2015 in collaborazione con La Villette – Résidence d’artistes 2015 Parigi, Create to Connect (EU project) Bunker/ Mladi Levi Festival Lubiana, Santarcangelo 2015 Festival Internazionale del Teatro in Piazza, L’arboreto – Teatro Dimora di  Mondaino, MARCHE TEATRO

durata: 1h 20’
applausi del pubblico: 5’

Visto a Roma, La Pelanda, l’8 settembre 2015

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