Bravini/Incarbone, Cristiani e Bartolini/Baronio: la scena che cattura lo sguardo

Fallen Angels (ph: Margherita Masè)
Fallen Angels (ph: Margherita Masè)

A Teatri di Vetro 23 le scelte di Roberta Nicolai raggiungono il pubblico

Presentando l’edizione numero 17 di Teatri di Vetro, ci eravamo augurati che l’inesistente, che qui esiste, fosse il più possibile visibile, che chiunque corresse a farsi un’idea di una scena contemporanea fatta di ricerca ma anche ansiosa di darsi allo sguardo.
L’augurio è stato sicuramente rispettato dalla prima serata della sezione più densa del programma, Oscillazioni, durante la quale le maschere del Teatro India consigliavano al pubblico di evitare spazi vuoti tra gruppi di spettatori, in modo di consentire a tutti di prendere posto nelle sale affollate.

Fra le tre proposte che siamo riusciti a vedere nella serata del 18, due hanno una storia più o meno lunga alle spalle: “All my loops for you” è una delle parti che compongono il progetto “Aporie” di Dehors/Audela, un ironico, lucido sostare in movimento ondulatorio, ritornante, di tre corpi e sei o sette dispositivi di riproduzione audio nello spazio scenico che imbastiscono un dialogo senza soluzione.
“Time is out of joint” di Opera Bianco è invece una sorta di “Jump” con prologo, un’opera sartoriale che rimette in discussione alcuni assunti del bel lavoro presentato proprio a Teatri di Vetro nel 2021. 

Il lavoro diremmo più fresco è “Fallen Angels” di Bravini/Incarbone che, nonostante la giovane età, hanno alle spalle una carriera di danzatori affermati (li ricordiamo nel rutilante “Inferno” di Roberto Castello, premio Ubu lo scorso anno).
Il lavoro che presentano qui, ha in Teatri di Vetro e in Roberta Nicolai due accompagnatori costanti, che fin dai primi vagiti hanno sostenuto il progetto tra Tuscania (la fase Trasmissioni) e Ostia Lido (durante la sezione Composizioni). Ricordiamo di aver visto un “Passo uno” del lavoro proprio a Ostia lo scorso anno, in una forma peraltro assai diversa dall’attuale.

Oggi il lavoro si presenta più severo, nettamente bipartito nel senso della lunghezza, della durata. Le due parti sono assegnate la prima a una danza morbida, che ha nella curva e nell’avvitamento i suoi segni più frequenti: Erica Bravini, sola in scena, entra ed esce dalla luce, accompagna l’allargarsi del fascio del proiettore, ne raccoglie come una morbida cascata il getto, ora quasi lo abbraccia, vi scivola attorno.

La seconda parte è invece dedicata alla spigolosità e all’aggressività della street dance, caratteristica che trova nella musica elettronica oggettiva, dilaniante (di Edoardo Maria Bellucci, suonata live da Gabriele Corti), qualcosa di più di una solida sponda costruttiva – ma in generale la musica è il terzo componente di “Fallen Angels”, insieme appunto alla danza e alla luce, tre elementi alla pari, come spiegano gli autori. E intanto il corpo della performer è trasfigurato, e perde l’impalpabile aericità dei primi momenti per una puntuta energia.
Ma il lavoro presenta anche una seconda piegatura, diremmo, quella nel senso dell’altezza come direttrice fisica, che organizza il lavoro nelle sue due parti attorno a un unico proiettore motorizzato (salvo qualche rinforzo) a centro palco, che cambia colore ma non direzione, un piombo il cui puntamento ora si allarga ora si restringe, ora si fa più copioso ora si asciuga.

Impossibile e forse dannoso tentare di dare di “Fallen Angels” una più precisa sinossi narrativa, perché non si tratta di un percorso rappresentativo che risponda a una drammaturgia leggibile orizzontalmente. Ciò nonostante (e nonostante sia scritto nel corpo di Bravini con una penna squisitamente coreografica e attraverso un vocabolario schietto di danze) la presenza di quel corpo, così speciale nella leggerezza, nell’educazione, nella levità della presenza anche quando si fa “cattivo”, riesce a catturare lo sguardo, se non con quell’empatia del corpo umano in scena che sentiamo eloquente al nostro, con un pathos che ha del richiamo figurativo: un’apparizione in cornice, dentro un museo, per un ammirato visitatore.

In fondo alla sala c’è un corpo sdraiato, nudo, bianco, di spalle. Con l’inconfondibile chioma rossa riccia di Alessandra Cristiani. Mentre si gira verso di noi, lentamente, con precisione, scorgiamo un nastro nero che copre gli occhi, la bocca e le nudità.
Comincia così “Lingua – Da Claude Cahun”, il nuovo assolo della performer che omaggia la “figura inarrivabile” dell’artista e fotografa ebrea francese, che visse nei primi anni del secolo scorso e che è ricordata per la sua militanza politica e per la sua trasgressività.

È un invito allo sguardo, un match con lo spettatore che diventa interessante nel prosieguo della performance, quando Cristiani – avanzando verso di noi – svela una mascherina bianca, tipo quelle di Carnevale. Quest’oggetto diventa scudo ma anche strumento per continuare il gioco di sguardi, viene appoggiato sulle varie parti del corpo, a creare figure antropomorfe.

In scena, di lato, il musicista Ivan Macera compone dal vivo un tappeto sonoro elettronico che accompagnerà la performance in un crescendo dal minimalista al sontuoso.

Lingua di Alessandra Cristiani (ph: Margherita Masè)
Lingua di Alessandra Cristiani (ph: Margherita Masè)

Alessandra Cristiani è adesso di fronte a noi, inizia a scrivere con un pennarello su tutto il corpo parole come “sensualità”, “passione”. Il nostro sguardo diventa sempre più curioso, aspettando una nuova parola. In seguito gli spettatori saranno invitati a fare altrettanto sul suo corpo, fino a che la performer non comincerà a girare tra la sala del Teatro India. Sulla schiena appaiono la forma di una mano, la parola “donna”.

Cristiani torna sul palco con in mano un fiore rosso, visibilmente finto, che annusa tornando al centro della scena. Disincanto, delusione di un mondo troppo maschile? Di conquiste femminili ancora da realizzare? Forse, chissà. Ci interroghiamo mentre scivoliamo verso il finale: una danza macabra in cui la performer, ferita al petto da vernice rossa, scaverà dentro sé stessa, fino alla morte. O alla liberazione.

Uno spettacolo che rimane addosso: un’“esperienza corporea”, per usare le parole di Masaki Iwana, maestro della Cristiani. Un vero pezzo d’artista.

La nostra serata prosegue verso altre emozioni, quelle che ci regalano Tamara Bartolini e Michele Baronio con “La voce umana. Traccia 2”, di fatto facendoci entrare all’interno del laboratorio teatrale comunitario realizzato da gennaio a giugno con Asinitas, realtà storica romana che si occupa di educazione, formazione e inclusione sociale attraverso vari progetti, tra cui i corsi di italiano per migranti, rifugiati e richiedenti asilo.

La voce umana. Traccia 2 (ph: Margherita Masè)
La voce umana. Traccia 2 (ph: Margherita Masè)

E improvvisamente siamo in Iran. Le due partecipanti al laboratorio Sara Ghorbanian Matlub e Zara Kian ci raccontano le loro storie e ci invitano a consumare un pasto, tutti insieme su un tappeto che appare nella sala Oceano del Teatro India. Datteri, tè, formaggio, verdure e pane per un vero momento d’incontro, intimo. Ognuno racconta un pezzo di sé, in quella ambigua miscela tra spettatori di Teatri di Vetro e persone migranti che frequentano le attività di Asinitas. Alla fine, molti rimangono commossi fino alle lacrime.

Dov’è il teatro? Ci chiediamo spesso. Forse è anche in quel mettersi in cerchio e condividere un pasto con la voglia di conoscere altre persone e altre storie.

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