Differenti Sensazioni di teatro. Da Stalker la riflessione e la condivisione con l’Altro

Le Identità Precarie di IlinksLe Identità Precarie di Ilinx||Cie La Bagarre / Erika Di Crecenzo fotografata da Andrea Macchia
Le Identità Precarie di Ilinx||Cie La Bagarre / Erika Di Crecenzo fotografata da Andrea Macchia

“Nel semplice incontro di un uomo con l’Altro si gioca l’essenziale, l’assoluto: nella manifestazione, nell’«epifania» del volto dell’Altro scopro che il mondo è mio nella misura in cui lo posso condividere con l’Altro”.
Così il filosofo francese Emmanuel Lévinas riteneva che l’incontro con l’Altro – nella sua estraneità incoercibile a qualunque imposizione di significato, categorizzazione o appropriazione – permettesse all’uomo di salvarsi dal proprio solipsismo egologico e autocentrico, e di aprirsi all’infinita trascendenza incarnata nel volto del Prossimo.
Questa uscita da sé, che è la ragion d’essere del teatro stesso come rituale comunitario, rientra nelle intenzioni di una rassegna come Differenti Sensazioni, che aspira a coniugare performance art e interazione sociale.

Il festival si è infatti aperto con uno spettacolo di teatro partecipativo, fondato cioè sul coinvolgimento del pubblico, che si scopre ed improvvisa spett-attore, al tempo stesso osservatore e coautore della creazione in atto.
Si tratta di “Alter”, una produzione dei padroni di casa Stalker Teatro, che inaugurano il festival riflettendo sul valore etico dell’alterità e di quella reciprocità originaria del co-esistere intersoggettivo che Martin Heidegger avrebbe definito “Mitsein” (Con-Essere).
Come ricorda Luigi Allegri, il teatro nasce precipuamente dalla compresenza e dal contatto emotivo – nell’effimero hic et nunc dell’evento performativo – di esecutore e fruitore, ruoli che il regista Gabriele Boccaccini decide di scardinare dalle loro collocazioni tradizionali, annullando il confine e la tipica frontalità di palco e platea.

L’esito è un’opera che non si lascia contemplare passivamente e che sfiora invece modalità vicine agli happening di Allan Caprow e alle tecniche del Teatro dell’Oppresso del brasiliano Augusto Boal, ma in cui la componente provocatoria e politica risulta attenuata da una meno dirompente pedagogia di “condivisione dello spazio”, trasformato in tela vergine per un action painting di corpi in movimento.

Nel 1968 Peter Brook dichiarava: “Posso scegliere un qualsiasi spazio vuoto e dire che è nudo palcoscenico. Un uomo attraversa questo spazio vuoto mentre un altro lo sta a guardare, e ciò basta a mettere in piedi un’azione scenica”. L’esperimento di Stalker, seppur non inedito, conserva e trasmette questa elementarità primordiale dell’incontro teatrale, e ne mantiene intatto il potenziale emancipatorio: la sfida cui è sottoposto lo spett-attore sembra infatti essere quella di giungere a percepire il gruppo come entità plurale, come insieme di volontà simultanee, interdipendenti ma al tempo stesso imprevedibili, al cui respiro collettivo l’individuo può decidere di coordinarsi o, viceversa, di non adeguarsi, rompendone i fragili equilibri compositivi: di grande impatto visivo risulta ad esempio lo “sciame delle lanterne”, ottenuto avvolgendo di carta velina delle piccole luci apposte sulle mani dei partecipanti invitati a danzare, o ancora la raccolta di carta crespa colorata nell’esercizio di libere associazioni analogiche intitolato, con reminiscenze edeniche, “Nominazione”.
Attraverso una concatenazione di quadri in cui il puro accadere delle relazioni si sostituisce alla consueta finzione rappresentativa, attori e spettatori collaborano allo svolgimento di una serie di (situ)azioni che hanno come scopo principale la costruzione di legami – emblematica la ragnatela di graffette – e la realizzazione di installazioni che attingono agli astrattismi plastici e all’impermeabilità interpretativa di tanta arte contemporanea, che d’altronde privilegia il concetto di Processo a quello di Tema o Contenuto veicolato.

Sicuramente differenti sono le sensazioni offerte al pubblico delle Officine Caos la sera seguente, ma protagonista è sempre l’azione, questa volta declinata nella centralità della mimica e del linguaggio corporeo propria del teatro fisico: da una fenomenologia della compresenza si passa agli attriti della convivenza, la coabitazione forzata eppure spassosa dei DuoDorant, la “strana coppia” diretta da Jango Edwards.
Con la loro clown comedy “Übermarionetten”, ironico riferimento all’Übermensch nietzschiano e agli automatismi comportamentali dell’uomo qualunque, Giuseppe Vetti e Salvatore Caggiari portano in scena l’esilarante “Fuga da Alcatraz” di due impiegati dotati di una fervida quanto chiassosa immaginazione, che permette loro di evadere dalla sclerotica e alienante routine di una giornata lavorativa.
La struttura rapsodica di questo elogio dell’improduttività, articolato per brevi sketch, gioca sulla pantomima e sulla forza evocativa della musica, capace di trasformare un claustrofico ufficio nel set proteiforme di epici duelli western o di grotteschi concerti, in cui ad esibirsi con basso e batterie invisibili sono virtuosi androidi e gatti di peluche “suonati per il collo”.
Fra una bagnata pausa caffé e il lacrimevole decesso di una playstation – gag talvolta troppo classiche ed abusate dalla visual comedy – emerge la parodia di tutte le nevrosi e gli equivoci del nostro quotidiano relazionarci, e si dispiega quel meccanismo della coppia comica indagato da Stefano Brugnolo, che dimostra come il dualismo sia spesso maschera di una più profonda affinità e complementarità: “…sono amici ma anche rivali; cercano di prevalere l’uno sull’altro ma non ce la fanno; vogliono collaborare ma si intralciano; vorrebbero separarci ma non ci riescono; e così via. Questa unità nella diversità fa sì che la coppia sia contemporaneamente personaggio unico e luogo di antagonismi, una vivente coincidenza degli opposti”.

Uno scarto notevole di tono, dal viscerale al cerebrale, si compie con “P.I. Identità Precarie” della compagnia Ilinx di Milano.
L’antropologo Francesco Remotti, nel suo studio “L’ossessione identitaria”, riferendosi al processo, più o meno inconscio, di adozione di un’identità da parte di un Io collettivo o individuale, sottolinea proprio come ogni “assunzione di forma” si fondi sempre su una scelta, su un bivio, ossia su un simultaneo meccanismo di selezione e scarto di possibilità, che comporta inevitabilmente un esito particolare, arbitrario e revocabile. Da questo si deduce la precarietà di ogni nozione di identità che si pretenda necessaria, universale e inalterabile.

Potrebbe essere questo il punto di partenza della drammaturgia di Amanda Spernicelli, che indaga un fenomeno sempre più diffuso in Giappone, quello degli hikikomori, quegli adolescenti che intraprendono la via dell’autoreclusione per sottrarsi alla pressione sociale della competitività e della funzionalità coatta, barattando il mondo reale per la virtualità più maneggevole del web: la stipula di una pace separata dall’umano consorzio, condotta attraverso una feroce lotta anticorpale contro l’intrusione e la contaminazione dell’alterità – topos caro a Stalker Teatro – ovvero di quel fuori che assedia sotto forma di rumore bianco mediatico.

Identità disciplinari e disciplinate, omologazione seriale, dittatura del bello esteriore e deriva tecnologica sono alcuni dei temi su cui si focalizza lo spettacolo, che attraverso una girandola di pronomi personali e divorzi schizofrenici della personalità, riduce il soggetto ad Io diviso, significante privo di referenza, vacuo simulacro di un’omogeneità di superficie, non a caso contraddetta dall’asimmetria che governa l’apparato scenografico così come le traiettorie spezzate e i frammentati dialoghi dei personaggi.

La regia di Nicolas Ceruti elegge una gabbia a spazio-trappola per ambientare l’isolamento catatonico e letargico dell’hikikomori, e vi rinchiude tre attori che si agitano febbrili dietro sbarre metalliche che producono un suggestivo effetto ottico. Un non-luogo deputato ad ospitare il paradosso della contiguità obbligata con gli altri, e di una parallela, originaria, impermeabilità alla comunicazione, resa dalla recitazione depsicologizzata e laconica degli interpreti. La gabbia verrà poi lentamente ricoperta ed oscurata da fogli di giornale, a simboleggiare non solo la regressione intrauterina dell’hikikomori, ma anche una più generale ed inesorabile tumilazione dell’umanità per asfissia informativa e la polverizzazione del Fatto in un’eco babelica e ridondante di notizie viziate dal virus dell’obsolescenza programmata.

Si passa alla danza e si torna a protagonisti torinesi con “E20” di Erika Di Crescenzo e Cie Le Bagarre, uno spazio di luce e tenebra in cui lo sguardo è costretto ad elasticizzarsi e rivalutare le sue abitudini: cosa ammettiamo entro il perimetro del visibile quando guardiamo la realtà? Cosa ristagna nel buio dei nostri sguardi?

La ricerca fisica e vocale della performer volge allo smascheramento delle convenzioni attraverso non sense linguistici e delicate coreografie, non senza incursioni nel burlesco e nella provocazione erotica, per giungere ad un’ipotesi: forse nel buio c’è ciò per cui ci affanniamo per tutta la vita; nel non-visto c’è lo smarrimento ma anche il processo, l’energia, l’evento e non più le banali cose che costellano la nostra esistenza.

Cie La Bagarre / Erika Di Crescenzo fotografata da Andrea Macchia
Cie La Bagarre / Erika Di Crescenzo fotografata da Andrea Macchia

“Fino all’ultimo sguardo” è invece il commovente e umanissimo ritratto messicano di Tina Modotti messo in scena da Teatri d’Imbarco.

Fotografa, intellettuale pasionaria e femme fatale, la Modotti è una delle grandi italiane nel mondo a cui la compagnia fiorentina sta rendendo omaggio con spettacoli e drammaturgie leggere, sognanti e sempre sul filo del racconto cronachistico e l’invenzione affabulatrice.

Ad accompagnare le gesta e le voci di questi personaggi vi è il sorriso disincantato, la semplicità scenografica e la bellezza delle canzoni alla chitarra.

Sono ancora Differenti Sensazioni quelle che emergono dalla visione di “Trattato di economia”, spettacolo che nasce dal proficuo incontro di due artisti all’apparenza molto diversi.
Roberto Castello, classe 1960, è uno dei coreografi “promotori”, e da oltre 30 anni protagonista, della danza contemporanea in Italia. Nel 1984 è tra i fondatori di Sosta Palmizi e dal 1993 direttore artistico di Aldes.
Andrea Cosentino, attore, drammaturgo, regista, oscilla da anni tra la scena off e i circuiti nazionali, avendo creato “un suo personalissimo modo di fare teatro, a cavallo tra affabulazione e non-sense, un genere che unisce l’affondo del pensiero con una comicità paradossale”.
Dopo anni di letture e studio nasce il progetto “Trattato di Economia” che, contrariamente al titolo che potrebbe presentire della noia, risulta essere uno degli spettacoli più divertenti e intelligenti delle ultime stagioni. Non è una lezione, non è teatro civile né divulgazione. Semmai è una riflessione sul mondo e il sistema che viviamo ogni giorno e di cui spesso ci dimentichiamo, immersi nella compulsione dell’acquisto.
Partendo da due oggetti apparentemente poco dissimili ma che hanno prezzi straordinariamente diversi (una papera e un fallo di gomma), i due artisti mettono in scena l’autoironia (che però non risulta autocentrata) del mondo teatrale, che cerca di rappresentare un sistema distorto e corrotto (Roberto Castello dà vita a improbabili coreografie, da Pina Bausch a Jan Fabre). Il tutto per finire in un delirio di fumo e nastri trasportatori che portano al macello qualunque cosa, mentre in video il critico teatrale Attilio Scarpellini  incensa lo spettacolo ma ammettendo candidamente di non averlo mai visto perché ancora non-nato.
Un due comico perfetto che unisce, in quello da loro stessi definito “coreocabaret”, cinismo e ironia, regalando uno sguardo irriverente ma del tutto attuale della nostra società oltre che del mondo dello spettacolo dal vivo.

Andrea Cosentino e Roberto Castello

Nella stessa serata arriva da Bologna “Delirio di una TRANS populista”, una produzione di Teatri di Vita per la regia di Andrea Adriatico. In scena Eva Robin’s.

Lo spettacolo è un comizio ispirato al leader politico austriaco, xenofobo, Jörg Haider attraverso le parole del premio Nobel 2004 Elfriede Jelinek, scrittrice e drammaturga austriaca definita “la Nobel fastidiosa”, autrice de “La Pianista” da cui è stato tratto l’ononimo film con Isabel Huppert, premiato nel 2001 al Festival di Cannes.

Ecco quindi che il delirante addio di un leader diventa quasi un discorso d’amore, benché totalitario e assolutista. Ma qui le parole, affidate alla trans Eva Robin’s, acquistano un valore diverso: perché ognuno, dal proprio punto di vista, sembra avere in mano la verità assoluta del bene e del male. E sicuramente questo fa pensare, oltre che spaventare.
Seppur argomento sempre attuale, la messa in scena di Teatri di Vita risulta però a tratti faticosa. La maggior parte delle parole sono affidate alla voce registrata e a proiezioni video. Divertenti, nel loro patetico e ricercato stile “trash”, gli inserti musicali danzati dalle tre veline barbute che, dall’entrata in scena vestite da collegiali, si trasformeranno in improbabili femmes fatales che faranno indossare parrucche al pubblico maschile nella disperata ricerca di essere “tutti un unico tutto”.

La rassegna di Stalker prosegue ancora fino a sabato. Stasera, giovedì 9 novembre, l’appuntamento è con “WS Tempest” di Teatro del Lemming e “Ritratto Di” di TiDA – Théâtre Danse; domani alle 21 “Maria Addolorata” di C&C company e a seguire “Domino” di Teatro Nucleo. Mentre la giornata di sabato inizierà alle 18 con l’incontro (a ingresso libero) con il presidente dell’ISMEL Giovanni Ferrero e con il vicepresidente della Fondazione Fitzcarraldo Catterina Seia, e proseguirà alle 21 con “Mad in Europe” di Angela Dematté e “Lei e Tancredi” di Cie Twain.

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