Quale buon governo (del teatro) in Italia? Intervista a Oliviero Ponte di Pino

Oliviero Ponte di Pino
Oliviero Ponte di Pino
Oliviero Ponte di Pino
Nuova puntata milanese, l’8 aprile scorso presso la Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi”, delle “Buone Pratiche del Teatro”, gli incontri che periodicamente l’associazione culturale Ateatro conduce per fare il punto sul teatro italiano.
Gli appuntamenti, ideati qualche anno fa da Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino, hanno avuto cadenza annuale fino a che non si è sentita l’esigenza di proporre più approfondimenti su vari argomenti, ragione che ha moltiplicato gli incontri.

Negli ultimi due anni si sono infatti tenuti diversi ‘summit’ teatrali, da Palermo a Firenze, da Genova a Ravenna e Catania, sino a questo di Milano, che ha scelto come tematica “Giù al nord. Il teatro pubblico e la città: idee per una riforma”, e che ha visto tra l’altro la presentazione di due interessanti libri, “La città che non c’era” di Fiorenzo Alfieri e “Fare di più con meno, idee per riprogettare l’Italia” di Stefano Boeri.
Dopo aver assistito a questo nuovo appuntamento, abbiamo domandato ad Oliviero Ponte di Pino di farci il punto della situazione.

Dalla prima edizione ad oggi sono cambiate le modalità delle Buone Pratiche. Come scegliete gli argomenti, le città e le persone che devono intervenire?
Nel progetto originario, le Buone Pratiche volevano presentare, valorizzare e discutere le modalità innovative di organizzazione, promozione, formazione e comunicazione del teatro italiano. Ma quasi subito ci siamo accorti che, nel vuoto del dibattito su politica ed economia della cultura in Italia, questi incontri soddisfacevano un altro bisogno diffuso: diventavano un’occasione per riflettere tutti insieme, apertamente, sulla situazione e i problemi del teatro italiano. Dunque nelle Buone Pratiche coinvolgiamo, oltre che teatranti, organizzatori e critici, anche politici, amministratori ed esperti, per offrire informazioni e dati, ma anche per individuare linee di tendenza.
Preparando ogni edizione, con Mimma Gallina cerchiamo di focalizzare un tema forte, che possa dare un indirizzo – o una tonalità – al dibattito: nel 2005, alla seconda edizione delle Buone Pratiche, si parlò di “Teatro come servizio pubblico e come valore” (ovvero la necessità del sostegno alla cultura), nel 2008 “Il teatro al tempo del grande CRAC” (di cui si avvertivano le avvisaglie), e nel 2012 “Movimenti e istituzioni” (dopo le prime occupazioni e prima del trionfo elettorale del M5S); temi che poi sono saliti in primo piano nel dibattito politico-culturale. Nella scelta delle sede, cerchiamo inoltre di intercettare realtà territoriali particolarmente stimolanti, e cogliere i segnali di cambiamento: per dar voce alle diverse realtà locali, e per intrecciare temi di carattere generale con l’evoluzione di situazioni emblematiche.
Il format delle Buone Pratiche offre una cornice che garantisca a tutti diritto di parola, a pari condizioni. La formula – che prevede anche una rigida contingentazione dei tempi – ha avuto successo, tanto che quest’anno abbiamo affiancato all’incontro di Firenze, sul tema “Del buon governo del teatro”, tre approfondimenti tematici, a Ravenna (l’apertura europea), Catania (il Sud) e Milano (il teatro pubblico e la città).  

Non avverti a volte il rischio che ci siano interventi troppo “difensivi” della propria situazione?
Vista la formula, è un rischio inevitabile. L’autodifesa costituisce la scorciatoia che prendono i forti quando si sentono deboli. Contiamo sempre, in ogni caso, sulla competenza e l’intelligenza di chi partecipa alle Buone Pratiche, sia di chi parla, sia di chi ascolta. In genere, chi interviene lo fa con un atteggiamento costruttivo: gli interventi più apprezzati sono sempre quelli che aprono nuove prospettive ed esprimono progettualità innovative.

Dalla Lombardia alla Sicilia quali sono state le problematiche comuni, le urgenze, al di là di quelle economiche, che hai riscontrato?
In primo luogo la precarietà dell’intero sistema e le difficoltà del ricambio generazionale e dei linguaggi, che sono da tempo tra i temi chiave della Buone Pratiche. Un altro nodo chiave è il rapporto con il potere pubblico e le pubbliche amministrazioni, in una fase di grave crisi economica, ma anche progettuale. Da tempo conduciamo una riflessione sui bandi: uno strumento che apprezziamo, ma che non può rappresentare la soluzione a tutti i problemi, anche perché nelle nostre amministrazioni mancano la visione politica e le competenze necessarie (e, aggiungerei, la cultura) per impostare correttamente le procedure e soprattutto per valutare progetti e risultati.

Quali sono, secondo te, le prime “riforme” di cui avrebbe bisogno il teatro italiano?
Per quanto detto prima, servono meccanismi più trasparenti nelle nomine, a partire dai CDA degli stabili pubblici, che restano pesantemente lottizzati. Bisognerebbe imporre limiti temporali alle direzioni dei teatri pubblici. Il teatro italiano è stato retto finora, nella sostanza, da meccanismi di autogoverno corporativo: c’è un problema di rappresentanza e di invecchiamento della classe dirigente (anche) teatrale. Vanno valorizzate le progettualità, perché non è più possibile capitalizzare in eterno i diritti acquisiti e le rendite di posizione. Le Buone Pratiche cercano da sempre di dare la parola anche a chi finora era rimasto escluso dai meccanismi consolidati, soprattutto i giovani.

A che punto è, secondo te, il livello della formazione attorale nel nostro Paese?
In Italia abbiamo vissuto diverse fasi, che si sono stratificate: anticamente l’apprendistato all’interno delle compagnie di giro e nelle filodrammatiche; poi, nel momento in cui quella tradizione è entrata in crisi, la modernizzazione con l’Accademia d’Arte Drammatica di Roma, la Civica di Milano e infine le scuole degli Stabili; dagli anni Settanta, i percorsi di autoformazione del nuovo teatro, attraverso seminari e laboratori con grandi e piccoli maestri; oggi un proliferare di occasioni pedagogiche, a volte straordinarie, dal magistero di Giuliano Scabia al Workcenter grotowskiano, o dalla “non-scuola” del Teatro delle Albe, all’esperienza di Luca Ronconi a Santacristina; infine l’apertura (tardiva) alla formazione permanente (a Milano ne ha parlato Maurizio Schmidt, senza dimenticare l’Ecole des Maîtres). Insomma, una tradizione in perenne crisi, con diversi tentativi di adeguarsi a modelli stranieri più avanzati, e una costellazione di esperienze affascinanti, ma difficilmente riproducibili.
Nel teatro italiano manca un modello portante, per la drammaturgia ma anche per l’attore. Tuttavia l’attore italiano mantiene caratteristiche sue proprie, che lo differenziano da quelli di altri Paesi: lo vediamo non appena i nostri attori incontrano testi e registi stranieri. Nell’insieme, questo meccanismo porta alla formazione di individualità eccezionali, ciascuna con le proprie peculiarità, ma non crea un sistema.

Nonostante la crisi e un pubblico non vastissimo, nascono a frotte nuove compagnie. Perché?
Fare teatro è facile e – volendo – non costa nulla. Tutti possiamo farlo. Salire in scena vuol dire mettere in gioco il proprio corpo, il primo e ultimo nostro capitale, il primo e ultimo aggancio con la realtà. Aiuta a conoscere noi stessi e il mondo in cui viviamo. Il teatro è un’opera d’arte totale, che insieme incarna e critica la “società dello spettacolo” e che spinge a praticare le diverse forme di creatività. Lo spettacolo è un’arte collettiva, che nasce dal gruppo. Consente di prendere la parola alle diversità presenti nella polis. Nell’era del virtuale, conserva il valore aggiunto della “presenza reale”. Il teatro affonda le radici fino alle origini dell’umanità, nel gioco e nel rito, e al tempo stesso è in grado di confrontarsi con la contemporaneità, anche grazie alla sua inattualità.
Abbiamo poi diversi modelli di successo: realtà italiane del nuovo teatro come la Raffaello Sanzio, Pippo Delbono, le Albe, i Motus o ricci/forte, solo per fare qualche esempio, che parlano a un pubblico giovane e hanno successo all’estero.
Viene anche il sospetto che la tensione teatrale sia profondamente radicata nell’antropologia italica. Spesso i nostri Premi Nobel per la letteratura sono teatranti (vedi Pirandello e Fo). E forse non a caso oggi la scena politica vede come protagonisti due clown, come hanno titolato autorevoli giornali stranieri.

Le prossime Buone Pratiche dove avranno sede? E quali saranno i temi?
Stiamo organizzando una sessione “tematica” dedicata al teatro per ragazzi e adolescenti, che si terrà a Mantova in autunno, in collaborazione con la rassegna Segni d’Infanzia (anzi, se avete esperienze da segnalare, inviatele a buonepratiche@gmail.com).
Abbiamo poi iniziato a progettare l’edizione del decennale, nei primi mesi del 2014, dove vogliamo chiamare a raccolta coloro che hanno presentato le loro Buone Pratiche dal 2004 a oggi, per una verifica dei progetti (ormai sono più di cento, tutti documentati nel sito ateatro) e per una riflessione sull’evoluzione del teatro italiano, che abbiamo seguito anno dopo anno sia nel dettaglio delle invenzioni organizzative sia nel quadro generale.
 

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