Quasi niente. Deflorian/Tagliarini nelle fragilità del reale

Foto © Claudia Pajewski|Foto © Claudia Pajewski
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Nel costruire un’ampia riflessione sulla nozione di parabola e sul suo uso nel teatro moderno, a proposito di una regia di Bernard Sobel, Jean-Pierre Sarrazac ha scritto: “[…] la dimostrazione, si voleva innanzitutto mostrazione. E nella “mostrazione”, c’è mostro: fabbricazione e sfruttamento, a partire dall’individuo più anodino – noi stessi, in qualche modo – di un essere mostruoso, soldato sanguinario, SA, o qualsiasi altro individuo serializzato dalla società di massa” (La Parabole ou l’enfance du théâtre).

Strano come un commento al personaggio brechtiano di Galy Gay – di un’opera che mai si potrebbe paragonare a questo “Quasi Niente”– faccia forse eco all’emozione, all’umana compassione, alla quotidiana solitudine nella quale siamo presi dopo aver visto l’opera di Deflorian/Tagliarini, nuova produzione ispirata a “Il deserto rosso” di Michelangelo Antonioni, presentata prima al Romaeuropa Festival e poi a Parigi.

Come può non sorprendere, in effetti, un paragone tra quest’ultimo scavo (il termine non è casuale) del duo teatrale italiano più seguito in Francia e la parabola di un uomo trasformato in mostro dalla società?
Eppure, pensando a come i cinque attori scrivono in scena la trama di una drammaturgia che inchioda il pubblico al filo dell’intima passione quotidiana di tutti, quest’essere minore (nel senso deleuziano del termine) che è Giuliana de “Il deserto rosso” di Antonioni rivela la medesima forza che ha Arianna nel tendere il filo che fa uscire dal labirinto. Una forza che permette di fuggire, di liberarsi, di evadere da questo mostro che è il reale. Allora la citazione si ribalta: quell’individuo “anodino”, marginale, siamo noi, vittime e carnefici, non più in grado di sopportare il confronto con la fragilità dell’altro, perché abbiamo represso la nostra fragilità. Siamo noi che, da soli, abbiamo fabbricato e sfruttato una scorza, un’apparenza sociale dietro la quale abbiamo nascosto la nostra stessa debolezza.

Il meccanismo della drammaturgia d’attori su cui poggia lo spettacolo permette un gioco raffinato, ironicamente metateatrale. Tutto ruota intorno a questo personaggio di finzione, tramite il quale ciò che è mostrato è, prima di tutto, la costruzione di un testo scenico senza trama. Si parte dallo scavo – dell’attore in sé stesso, dell’attore nel reale che lo vive, dell’attore nel dispositivo che lui stesso costruisce –. Si parte, con ordine non casuale, dai cinque attori (tre donne e due uomini) che sorgono da dietro un “velatino” che fa da barriera al buio fuori dalla scena; si torna, infine, dove tutto è cominciato, dietro questo pallido velo: al silenzio che circonda quell’intimità che solo in scena può essere detta.

“Giuliana” e Monica Vitti, personaggio e attrice/attore, scena e sala, persona e “questo mondo”, quello del “realismo capitalista”: è a partire da queste coppie in contrasto, in dialogo o in lotta, che Daria Deflorian e Antonio Tagliarini vogliono mostrare nei suoi intimi effetti il potere, non nominarlo nelle sue “cause” o “ragioni”, nemmeno denunciarlo nei mostri che crea, bensì svelarlo nelle “lucciole fisiche e di pensiero” che schiaccia.

Se in “Un uomo è un uomo” è Galy Gay a diventare mostro, qui è l’alienazione capitalista (che ha fatto “sparire le lucciole”, disperata considerazione di Pasolini) il mostro che deve essere esposto. È cadendo senza freni nelle debolezze svelate di queste tre donne di trenta, quaranta e sessant’anni che cadiamo nelle nostre paure, nelle nostre intime fragilità. E in questa caduta – tutta calibrata, studiata e composta nei minimi dettagli – in una quotidianità flebile, sottile, insopportabile, la musica, il suono e il silenzio giocano un ruolo centrale.
Se il motivo leggero de “Il surf della luna” di Giovanni Fusco che apre la pièce peserà, nel ricordo dello spettatore, alla fine, come un macigno, è perché le tante parole e suoni di quest’opera cadono nei silenzi durante i quali il pubblico sprofonda. In sé stesso, nella compassione di sé stesso forse, o nel divertimento col quale ci riconosciamo nelle debolezze dell’altro (l’attore), anche per poi essere accarezzati dalla voce de “la trentenne” Francesca Cuttica, che cantando ci impedisce di sfuggire da un dolore che è il nostro, ma che mostruosamente rifiutiamo.

Foto © Claudia Pajewski
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Se è, questo teatro di Deflorian/Tagliarini, un teatro intimo e politico, che fa del quotidiano una figura retorica per esprimere un dolore che si scioglie – forse si dimentica – nella compassione, esso è anche un’opera che costruisce e gioca con, libera da, i meccanismi di auto-rappresentazione di sé e di coercizione – politica – dell’intimo. E in questa “fabbricazione” di una struttura teatrale collettiva, aperta, plurale risiede anche il segreto di un raffinato esercizio di “esorcismo” dei mostri che abbiamo dentro e di riconoscimento delle fragilità che quotidianamente schiacciamo.

Questo spettacolo del marginale, del fragile e della debolezza non si chiude, infatti, su un meccanismo semplicemente consolatorio, non ci permette insomma di essere purgati attraverso l’identificazione, o di pagare il prezzo delle nostre “mostruosità” con qualche ora di senso di colpa. E poi magari dimenticare ogni forma di intima sensibilità con l’umano che abbiamo intorno. Non fa della vittima un eroe o un soggetto da compatire, ma una possibilità, perduta, da riscoprire.
Nel far sorgere e sparire dietro il velo i personaggi che presentano la loro impossibilità strutturale a raccontarci/si una storia che li (ci) rifletta, “la quarentenne” (Monica Piseddu) pronuncia le ultime battute dell’opera: “Che cosa mi racconti, che cosa mi racconto?”.

Ecco: mai come oggi, forse, saper costruire un’opera che metta in mostra lo scavo intimo dell’attore, che interpelli costantemente il pubblico, che lo renda protagonista di questa costruzione, emozionale e politica, può essere un’arma efficace. Efficace per mettere a distanza il reale e comprenderlo nel suo annidarsi nei nostri sogni. Efficace anche per mettere in luce gli scarti del nostro essere cui non diamo voce, e che forse sono una via verso una solidarietà possibile.
Certo manca, come una promessa mancata, come manca il confronto con un padre che sta mostrando la sua debolezza (scena che Daria Deflorian nello spettacolo evoca), il confronto con un reale, anche psicologico, che abbia la forza di cambiare questa nostra medesima realtà. Se in effetti il portare sulla scena lo scavo su un personaggio di finzione permette una “messa a distanza” del reale e dei dispositivi coi quali costruiamo le nostre finzioni quotidiane (scenicamente esibite e che costruiscono l’ossatura di quest’opera), non c’è la proposta della costruzione di un altro reale. Non c’è, insomma, la costruzione di una forma veramente “aperta” – di fatto lo spettacolo si richiude su sé stesso, si compone per poi ricomporre a vista le proprie forme assolute.
Sentiamo quindi il bisogno, grazie anche a quest’opera, di forme aperte con cui affrontare il reale, non solo forme di commiato da esso, verso una fuga nel sogno e nell’intimo. Tuttavia, merito innegabile di quest’opera non è solo di porci la domanda: “Che cosa [ci] raccont[iamo]”, ma anche di imporci di ritrovare il sogno di una diversa narrazione del reale.

QUASI NIENTE
Progetto Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
liberamente ispirato al film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni
Collaborazione alla drammaturgia, Aiuto regia Francesco Alberici
Con Francesca Cuttica, Daria Deflorian, Monica Piseddu, Benno Steinegger, Antonio Tagliarini
Collaborazione al progetto Francesca Cuttica, Monica Piseddu, Benno Steinegger
Consulenza artistica Attilio Scarpellini
Il testo Buono a nulla è di Mark Fisher
Luce, Spazio Gianni Staropoli
Suono Leonardo Cabiddu, Francesca Cuttica (Wow)
Costumi Metella Raboni
Traduzione e sovrattitoli in francese Federica Martucci
Direzione tecnica Giulia Pastore
Organizzazione Anna Damiani
Accompagnamento, Distribuzione internazionale Francesca Corona / L’Officina
Produzione A.D., Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Metastasio di Prato, Emila Romagna Teatro Fondazione
Coproduzione théâtre Garonne, scène européenne Toulouse, Romaeuropa Festival, Festival d’Automne à Paris / Théâtre de la Bastille – Paris, LuganoInscena LAC, Théâtre de Grütli – Genève, La Filature, Scène nationale – Mulhouse
Sostegno Istituto Italiano di Cultura di Parigi, L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, FIT Festival – Lugano
Foto © Claudia Pajewski

Visto a Parigi, Théâtre de la Bastille, il 24 ottobre 2018
Festival d’Automne à Paris

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