“Il potere corrode tutti”. Intervista a César Brie

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César Brie in '120 chili di jazz'
César Brie in ‘120 chili di jazz’ (photo: Daniele Rossi)
Non sempre, quando si va a teatro, si ha la sensazione di aver ‘visto’ uno spettacolo, ma piuttosto di averlo ‘ascoltato’: sono ancora moltissimi i registi legati ad un’idea di teatro fatta essenzialmente di parole, di trasposizione poco immaginativa del testo.

In questo panorama si capisce allora perché la poetica dell’immagine metaforica di César Brie abbia tanto incantato l’Italia: il suo teatro ci ha insegnato quale potenza visionaria può rivelare un oggetto anche poverissimo nel momento in cui è assunto a simbolo del dolore o del desiderio umano: panche di legno, grucce, foglie secche, nella loro assoluta semplicità sono divenuti veicoli di un mondo immaginativo, in cui César Brie ha saputo stupirci e commuoverci, raccontandoci storie ora lineari, ora estremamente complesse, ma sempre trasponendole con una piacevolissima semplicità animata da un ammirevole senso etico.  

Dopo il bellissimo “Karamazov”, con cui si era compiuto il miracolo di trasformare in puro teatro più di mille pagine di pura letteratura, César Brie torna in scena con “120 chili di jazz”, un monologo dal tono più leggero, ma sempre carico di quell’umanità che costituisce costantemente il centro del suo interesse.
Abbiamo incontrato l’artista nel nuovo spazio di Campo Teatrale, realtà milanese con cui collabora da tempo e che co-produrrà il suo prossimo lavoro, “Indolore”, per parlare della sua poetica, del suo futuro e anche del nostro presente.

In questi giorni sei in scena con un monologo: “120 chili di jazz”. Riassumici di cosa si tratta.
Parla di un ciccione innamorato di una ragazza che, per incontrarla un sabato sera, deve entrare in una festa e fingersi contrabbassista in un gruppo jazz. Ma lui non sa suonare il contrabbasso e il gruppo jazz ha già il suo contrabbassista, quindi quello che deve fare è riuscire a sostituire il contrabbassista, farsi accettare come contrabbassista e poi… non fare cilecca, perché se sarà fiacco, ovviamente non riuscirà mai ad avvicinarsi a lei!

120 chili di jazz
Brie in ‘120 chili di jazz’ (photo: Paolo Porto)
Com’è nato questo spettacolo?
In realtà da un racconto che ho scritto molti anni fa, nel ’94, quindi ben 18 anni fa. L’ho fatto per far ridere la donna che amavo e che non mi amava, e quindi l’ho fatto per virtù! L’ho scritto in una notte per lei, faceva ridere… E’ molto leggero, in scena non c’è niente, soltanto una sedia, delle musiche e me. E questi tre amori: l’amore per il jazz, l’amore per la donna e l’amore per il cibo di questo ciccione.
Dopo averlo scritto, ho vinto un premio letterario, poi uno dei miei attori mi ha chiesto se lo volevo fare per il teatro, così ho fatto la drammaturgia e l’ho diretto. Dopo lui se ne è andato dalla Bolivia in Ecuador, e lì ha vissuto sei anni con questo spettacolo e forse ancora ci campa. Del resto parliamo di un bravissimo attore, quindi lo fa veramente bene.
Quando sono tornato in Italia, ho preparato “Albero senz’ombra”, che però è uno spettacolo complicato da montare, e non si può portare ovunque. Quindi avevo bisogno di qualcosa di più semplice. Così ho pensato: perché non rifaccio “120 chili di Jazz” per me? Così l’ho tradotto e l’ho montato in quattro giorni, è stato proprio un lavoro velocissimo!
Quando ho cominciato a farlo, però, non ero soddisfatto, perché in realtà era una regia fatta su un altro e io non mi sentivo comodo. Allora ho iniziato a modificarlo, a giocare col pubblico e ad affrontare il meccanismo della narrazione. E’ un teatro di narrazione in fondo, però lo faccio usando molto più il corpo di quanto si faccia di solito. E ancora adesso sto indagando su come raccontare questa storia.
Ogni giorno di replica mi cercherò qualcosa da aggiungere, da cambiare, una chiave diversa ancora… anche se son contento, lo spettacolo già funziona, la gente ride, si commuove. Però vorrei indagare di più, e quindi lavorerò su come narrare usando il corpo, non come mimo, ma creando delle immagini, cosa che è un po’ una delle cifre del mio lavoro. Io ho sempre rifiutato il teatro solo come parola. Ho amato vederlo, ma non farlo. Ho sempre cercato invece il punto in cui immagine e testo si sintetizzano.
Per “120 chili di jazz” il punto è soprattutto questo: gli spettatori devono vedere questo ciccione fin da subito. La mia scommessa è fare il ciccione con 70 chili, non con 120, ma loro devono vedere da subito i 120 chili. Come li rendo? Non con la pancia finta, ma con quello che dico e faccio. Questa è la scommessa che affronto.

Nel frattempo stai ancora girando con “Karamazov”, che il 16 novembre sarà in scena a Bergamo e a gennaio a Brescia…
Sì, adesso dura 10 minuti in meno, però non abbiamo tolto nulla, semplicemente l’abbiamo serrato, sintetizzato, asciugato. L’abbiamo portato in Argentina, in spagnolo, e quel cambio di lingua gli ha dato un altro ritmo. I ragazzi hanno smesso di fare quelle pause drammatiche d’accademia cui erano abituati e finalmente hanno capito l’importanza dell’azione!

Uno dei pregi dello spettacolo è proprio la bravura degli attori. Nonostante siano ragazzi giovanissimi, usciti appunto dalle accademie, sono tutti molto naturali: una cosa rara.
Li ho scelti proprio perché erano così. Ne ho visti più di cento e tromboni non ne volevo. Li ho scelti perché erano umani e bravi, avevano le due qualità che a me servivano: che fossero generosi tra di loro e che fossero aperti.

I Fratelli Karamazov di César Brie
I Fratelli Karamazov di César Brie (photo: Ilaria Scarpa)
“Karamazov” è uno spettacolo particolarmente ricco di immagini. Parlarci di come è nata qualcuna di queste immagini.
Per “Karamazov” ho scelto subito gli oggetti: ho pensato ad un tappeto che fosse come un giardino abbandonato, alle panche, alla corda e alle grucce usate come croci. Queste erano le cose che volevo sin da subito. E i pupazzi usati per i bambini, a cui adesso abbiamo tolto le gambe. Ora sono più come anime. Ho deciso questo cambio perché mi sembrava più forte.
Per quel che riguarda le immagini, c’è una scena in particolare che trovo interessante: quella dello Starec Zosima, in cui ho deciso di rovesciare le panche. Questo perché volevo che il pubblico guardasse la scena non frontalmente o lateralmente, ma dall’alto della finestrella della cella. Non potevo spostare il pubblico, ma potevo cambiare la scena. Così ho rovesciato le panche. Cerco sempre di trovare un modo per cambiare il punto di vista del pubblico.
I Fratelli Karamazov di César Brie
I burattini (ancora con gambe) dei Fratelli Karamazov di César Brie (photo: Ilaria Scarpa)
Com’è nata invece l’idea di trasformare il processo in un teatro di burattini?
Il processo occupa almeno un quarto del romanzo, ma il senso finale, secondo me, è solo la mondanità. Anche se alla fine c’è una condanna, in realtà il processo è raccontato quasi come un evento mediatico di oggi, come qualcosa di mondano, con le signore che tifano per uno, piuttosto che per l’altro… Mentre per l’accusa o la difesa l’interesse è solo per il proprio prestigio. Della verità, in definitiva, importa poco a tutti.
Così più che un processo mi sembrava un teatrino dei burattini, e allora mi son detto: facciamo i burattini! Questo mi ha permesso di straniare tutti i discorsi e ridurre tutto all’osso; infatti abbiamo fatto in nove minuti un quarto del romanzo. In un primo momento l’avrei addirittura tolto, invece così ho tolto testo, testo, testo, e ho lasciato un’ossatura che desse quest’idea della curiosità morbosa della gente.
Del resto con gli attori avevo già lavorato fisicamente sulle marionette per renderli più precisi nei movimenti, e tutto quel lavoro poi è tornato utile. Ci siamo anche divertiti molto. Alcuni lavorano con l’idea della marionetta senza fili, altri con l’idea del burattino, altri mischiano, ma comunque credo funzioni. Io per esempio non ho ancora fissato, continuo a improvvisare in quella scena, non voglio fissare, so cosa devo fare in certi momenti, però per il resto, a seconda di come sto in quel momento, faccio una partitura fisica diversa, perché voglio cercare ancora.

Una delle immagini per me più efficaci è quella delle uova associata al personaggio di Smerdjakov.
Uno dei problemi più grossi da affrontare per me era come fare la madre di Smerdjakov: come rendere lo stupro? Poi ho pensato: facciamo che non c’è Lizaveta, che Smerdjakov stesso fa da Lizaveta e poi nasce. Così ho unito le due cose: quando violento Lizaveta, le metto la faccia nelle uova e queste uova diventano subito dopo la placenta in cui Smerdjakov nasce. E poi il suo diventare epilettico è reso ancora con lo sbattere le uova. In più quando ammazza il padre… crack, le ossa del cranio fanno rumore sulle uova.
Insomma, queste uova sono diventate lo stupro, la placenta, l’attacco epilettico, l’assassinio e in più il mestiere del cuoco, perché Smerdjakov fa il cuoco. Quindi è stato come fare economia! Un’immagine per dire tutto. A me piace molto quando succede. A volte la gente neanche se ne accorge, ma spesso la cosa più bella è creare una enorme sintesi! In effetti sono molto orgoglioso di questa soluzione. E’ venuta al momento e ha funzionato. Non sempre è così. A volte cose che in testa ti sembrano bellissime, in scena non funzionano e vanno eliminate.

“Karamazov” è prodotto dall’Ert. E bisogna dire che molte delle realtà più interessanti vengono spesso dall’Emilia Romagna. Com’è nata questa collaborazione?
Pietro Valenti, direttore artistico della fondazione Emilia Romagna Teatro, ha stima del mio teatro da tanti anni, e mi aveva invitato più volte. L’Emilia Romagna è una regione piena di grosse realtà, e anche di piccoli gruppi che lavorano con onestà e con vocazione. E’ una terra fertile.

Il prossimo spettacolo, invece, sarà coprodotto da Campo Teatrale di Milano, che ospita i tuoi spettacoli ormai da diversi anni.

Campo Teatrale è uno dei miei punti di riferimento qui a Milano. Il direttore artistico Donato Nubile è stato uno dei miei allievi. Ho seguito fin dall’inizio il suo progetto di creare uno spazio teatrale che fosse una realtà di scambi e un luogo di produzione creativa. E’ un progetto a cui voglio collaborare fin che posso. E poi questo posto [la nuova sede in via Casoretto, un edificio di tre piani accorpato ad una nuova sala teatrale, dove Klp è già andato a curiosare, ndr] è meraviglioso, è una fucina, vedo arrivare tutto il tempo persone che lavorano, lavorano, lavorano. C’è energia, tanti ragazzi giovani… è un posto pieno di attività. Sono persone umili, colte, intelligenti e lavorano, quindi sono necessarie.

Cosa puoi dirci dei tuoi prossimi lavori?
Ho deciso di creare quattro piccoli spettacoli per i miei attori di “Karamazov”, perché voglio che mangino con il proprio lavoro. Quattro regie, per quattro spettacoli da vendere anche a incasso.
Uno con tre attori, gli altri con due, così nove persone in tutto avranno uno spettacolo e la possibilità di campare. Il primo è “Indolore”, l’altro “Il vecchio Principe” basato sul “Piccolo Principe” di Saint Exupery, il terzo sarà “La mite” di Dostoevskij, mentre l’ultimo sarà il mito di Orfeo e Euridice alla luce del tema dell’eutanasia. Ci sarà Orfeo che, girandosi, stacca la spina, decidendo di non tenere Euridice in vita, ma di riportarla al regno dei morti. Su questo devo ancora lavorare drammaturgicamente, quindi sarà l’ultimo.

E “Indolore” debutterà a Campo Teatrale il 24 gennaio.
“Indolore” è la ripresa di uno spettacolo che ho fatto in Bolivia con due attori ed è un’indagine sulla violenza familiare. L’immagine di base è un ring-boxe. Comincia con il classico ingresso da novelli sposi, ma il resto l’ho rapportato alla boxe. Questo perché nella boxe ci sono 16 categorie: se io peso 5 chili più di un altro, non posso picchiarlo, perché sono in vantaggio. Queste categorie vanno da tre chili e otto a quattro e due massimo di differenza. Per cui, se un uomo di 90 chili picchia una donna di 50 chili, è chiaro che lei non ha nessuna chance di difendersi.
Ho ripreso dalla boxe anche l’idea del campanello per introdurre ogni nuova scena: a tavola, nel lavoro, nei sogni, coi figli… sono tanti momenti diversi.
Non c’è mai violenza vera e non ci sono mai veri spintoni, ma sempre violenza sugli oggetti o solo dichiarata.
Ho deciso di portarlo in Italia perché amo molto il testo. E’ un testo poetico. L’ho creato a partire da una serie di immagini, che ho unito alla luce del contesto da indagare. Poi ho chiesto ai miei attori di mettere queste immagini in sequenza, mentre io preparavo il testo. Io scrivevo e loro mettevano le immagini una dietro l’altra. Loro dicevano qualche frase, e io correggevo. Correggevo e sforbiciavo un po’. Così abbiamo costruito questo spettacolo; quindi è un lavoro che non è partito dal testo, ma che è arrivato al testo.

Tu cominci spesso dalle immagini per arrivare solo in un secondo momento al testo?
Spesso, ma non sempre. A volte parto dal testo, mi ci allontano per andare verso le immagini e ci torno con le immagini stesse. In questo caso ho lavorato al rovescio. Ho messo in ordine le immagini e su quelle immagini ho costruito il testo. E’ come scrivere per quello che vedi. Quando l’immagine ha bisogno di spiegazione, il testo spiega.
Tra tutte, in questo spettacolo ce n’è una per me folgorante, fortissima: la donna a un certo punto sale sul tavolo e comincia a camminare, e tutti i piatti di metallo cadono, mentre lui tira la tovaglia da dietro, così che diventa come un nastro senza fine, in cui lei cammina e resta sempre nello stesso posto, e mentre cammina i piatti crollano sul tavolo e poi sul pavimento, quindi è un doppio rumore, ed è come il ciclo che non finisce più. E’ un’immagine fortissima che hanno avuto i miei ragazzi boliviani. Non c’è violenza, eppure è violentissima. E mi piace che si svolga sulla tavola, perché il 60% delle violenze familiari accade a tavola.

Nel 2010 sei stato costretto a lasciare il Teatro de los Andes e la Bolivia a causa di minacce ricevute dopo aver diffuso il documentario “Tahuamanu”, nel quale denunci una strage accaduta in Bolivia l’11 settembre 2008, in cui i campesiños che difendevano il diritto alla terra sono stati massacrati da squadristi legati all’opposizione fascista. Questa stessa strage è anche il tema dello spettacolo “Albero senza ombra” che hai portato in Italia. Pensi che potrai mai tornare in Bolivia?
Non è che non posso tornare, in realtà posso tornare. Però non torno più. Ho venduto le mie cose. Forse potrei tornare proprio per fare “Albero senza ombra”…

Sfidando i rischi?
Sì, ma forse farei in tempo a farlo e andarmene via prima che diventi veramente rischioso. Mi piacerebbe farlo, perché la gente non sa.
Io ho fatto due documentari: uno mi ha dato le simpatie di un settore e le antipatie dell’altro, l’altro viceversa, mi ha dato le antipatie del primo settore e le simpatie del secondo. Parlo di persone legate al potere, perché i miei documentari non disturbano la gente comune. Quindi forse mi resta ancora una cosa da fare lì: proprio “Albero senza ombra”. E’ un po’ rischioso sì, perché denuncio persone che sono al potere, che sono attive, però quella gente non va mai a teatro!

Albero senza ombra
César Brie in ‘Albero senza ombra’ (photo: Paolo Porto)
In Italia “Albero senza ombra” ha fatto parlare molti giornali della strage. In Bolivia ha smosso qualcosa?
In Bolivia ha smosso molto il documentario, anche se non è stato passato alla tv, perché il governo non vuole, e la destra non vuole. Quindi è stato trasmesso solo in qualche cinema. La gente quando lo vede rimane sconvolta, perché per la prima volta capisce cosa è successo. Però non ha avuto la diffusione che avrebbe dovuto. Io però sono convinto che tra dieci anni, se qualcuno vorrà capire cosa è successo, dovrà vedere il documentario. Ne sono stati fatti altri, ma sono documentari di parte, di destra o di sinistra. Quelli di sinistra saltano i momenti scomodi a quelli di sinistra, quelli di destra saltano quelli scomodi di destra. Alcuni sono anche fatti molto bene, però la verità naufraga.
Ho scoperto una cosa, girando il documentario: che tre delle autopsie sono state falsificate dal governo; le altre le ha falsificate la destra per nascondere le efferatezze delle uccisioni, ma tre le ha falsificate il governo, perché doveva mettere in mostra il perfetto fascista. Le ha falsificate per questioni politiche, fottendosene dei diritti delle persone.
Anche per questo il documentario ha avuto così poco successo: tutti gli europei e gli americani che vanno in Bolivia per sentire l’aria della rivoluzione sono delusi dal documentario, perché parla dell’esercizio illegale del potere da parte del governo, e questo non piace alle candide coscienze della sinistra, alle imbiancate coscienze della sinistra. Io invece sono contento di averlo fatto. Il potere corrode tutti.

La corruzione politica è un problema fortissimo anche qui da noi…
In effetti sono preoccupato per le mie figlie.
Leggevo oggi a uno degli allievi alcuni testi di Simone Weil scritti nel ‘32 sulla Germania totalitaria: se togli tedesco e metti italiano, sembra che parli dell’Italia. La fortuna che ha avuto l’Italia è che non ha trovato un folle come Hitler, perché se l’avesse trovato…

Paradossalmente, oggi è quasi un atto coraggioso perfino vivere in Italia.
Io vorrei ancora vivere in Sud America, ma ho due figlie piccole, per cui devo stare qua. Secondo me, però, ci si dovrebbe aprire di più a quei mondi. I ragazzi di “Karamazov”, dopo essere stati in Argentina, non volevano più venir via. Tutto quello che qui sembra spento, là è acceso: tutti fanno, tutti rischiano, qua invece è difficile qualunque cosa.
Questo perché non siamo capaci di bruciare le navi. Invece in Argentina abbiamo visto un Paese dove tutti rischiano, bruciano le navi, è veramente un’altra realtà. E secondo me si potrebbe lottare per questo e costruire un’altra economia. In Italia è finita l’opulenza e si stanno facendo i conti con la miseria, la miseria soprattutto culturale. E non è che l’Argentina sia esente da questo, anzi, è lo stesso, ma qui sembra tutto più precluso, costa tutto di più, la crisi è peggiore. E si è persa totalmente la visione corporativa. Oltreoceano, invece, è tutto più aperto.
 

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